Pubblichiamo la conferenza “Verità del cristianesimo?”, pronunciata dal cardinal Joseph Ratzinger il 27 novembre 1999 presso l’Università della Sorbona di Parigi, tradotta e pubblicata da “Il Regno-Documenti”, vol. XLV (2000), n. 854, pp. 190-195. Al termine del secondo millennio, il cristianesimo si trova, proprio nell’arca della sua estensione originaria, l’Europa, in una crisi profonda, che ha la sua ragion d’essere nella crisi della sua pretesa di verità. Questa crisi ha una duplice dimensione. Innanzitutto, si pone sempre più il problema se sia giusto, in fondo, applicare la nozione di verità alla religione: in altri termini, se all’uomo sia dato conoscere la verità propriamente detta su Dio e sulle cose divine. L’uomo contemporaneo può riconoscersi molto bene nella parabola buddhista dell’elefante e dei ciechi.
Un giorno, un re nel nord dell’India riunì tutti i ciechi della città. Poi fece passare davanti a essi un elefante. Lasciò che alcuni ne toccassero la testa, dicendo loro che si trattava di un elefante. Altri riuscirono a toccarne l’orecchio o la zanna, la proboscide, la zampa, il sedere, i peli della coda. Dopodiché il re chiese a ciascuno come fosse un elefante. E, a seconda della parte che essi avevano toccato, risposero: come una cesta intrecciala… come un vaso… come un vomere… come un deposito… come un pilastro… come un mortaio… come una scopa.
Poi – continua la parabola – si misero a discutere gridando: “L’elefante è così, no è così”, si gettarono l’uno sull’altro e fecero a pugni, mentre il re si divertiva. Per gli uomini di oggi, la disputa sulle religioni è analoga a quella dei ciechi dalla nascita. Davanti ai segreti del divino noi saremmo come nati ciechi. Per il pensiero contemporaneo, il cristianesimo non offre affatto maggiori certezze rispetto alle altre: al contrario, con la sua pretesa di verità, sembra ostinarsi nel non vedere il limite che segna ogni nostra conoscenza del divino, caratterizzata da un fanatismo decisamente privo di senso, incorreggibile nel confondere la parte di cui si è avuta esperienza personale con il tutto.
Questo scetticismo generalizzato sulla pretesa di verità in materia di religione e sostenuto anche dai problemi sollevati dalla scienza moderna in relazione alle origini e ai contenuti propri del cristianesimo. La teoria dell’Evoluzione sembra aver surclassato la dottrina della creazione, e le conoscenze acquisite sull’origine dell’uomo quella del peccato originale; l’esegesi critica relativizza la figura di Gesù e pone degli interrogativi sulla sua consapevolezza di Figlio; l’origine della Chiesa in Gesú appare incerta, e così via.
La “fine della metafisica” ha reso problematico il fondamento filosofico del cristianesimo, i moderni metodi storici hanno gettato sulle sue basi storiche una luce ambigua. Diviene facile, pertanto, ridurre i contenuti cristiani a un discorso simbolico, attribuire a essi una verità non superiore a quella del mito nella storia delle religioni, considerarli un tipo di esperienza religiosa che dovrebbe porsi umilmente a fianco delle altre.
In questo senso, sembra che si possa ancora restare cristiani: ci si continua a servire delle espressioni del cristianesimo pur trasformandone la pretesa da cima a fondo, la verità, che era stata per l’uomo una forza obbligante e una promessa affidabile diviene, oramai, un’ espressione culturale della sensibilità religiosa generale, espressione che sarebbe, ci viene fatto capire, il prodotto delle alee della nostra origine europea.
La pretesa di verità
All’inizio di questo secolo Ernst Troeltsch ha formulato in termini filosofici e teologici questo arretramento interno del cristianesimo in relazione alla sua pretesa universale originaria, che non poteva fondarsi che sulla pretesa di verità. Egli aveva maturato la convinzione che non si può prescindere dal dato culturale, e che la religione è legata alle culture. Il cristianesimo è allora soltanto la parte del volto di Dio rivolta all’Europa. Le “particolarità individuali dei Gruppi culturali e razziali” e “le particolarità delle loro grandi formazioni religiose di insieme” acquistano il rango di istanza ultima: “Chi, dunque, oserebbe qui azzardare dei confronti di valori realmente decisivi? Solo Dio, che è all’origine di queste differenze, potrebbe fare una cosa del genere”. Un cieco dalla nascita sa di non essere nato per essere cieco e pertanto continuerà a interrogarsi sul perché della sua cecità e sul modo per uscirne. Solo apparentemente l’uomo si e rassegnato al verdetto di essere nato cieco di fronte all’unica realtà che conti davvero in ultima istanza nella nostra vita. Lo sforzo titanico di prendere possesso del mondo intero, di tirare fuori dalla nostra vita e per la nostra vita tutto quanto è possibile mostra, allo stesso modo che lo sfavillio di un culto estatico, trasgressivo e autodistruttivo, che l’uomo non si accontenta di questa sentenza. Giacché, se non sa da dove viene e perché esiste, non è in tutto il suo essere una creatura fallita? L’addio apparentemente definitivo alla verità su Dio e sull’essenza del nostro io, l’apparente contentezza per il fatto di non doversene più occupare, ingannano. L’uomo non può rassegnarsi a essere e a rimanere come cieco dalla nascita su questioni essenziali. L’addio alla verità non può mai essere definitivo.
Stando così le cose, occorre porre nuovamente la questione fuori moda della verità del cristianesimo, per quanto a molti essa possa sembrare superflua e insolubile. Ma come farlo? Indubbiamente, la teologia cristiana dovrà esaminare attentamente, senza timore di esporsi, le diverse istanze avanzate contro la pretesa di verità del cristianesimo nel campo della filosofia, delle scienze naturali, della storia naturale. D’altra parte, essa dovrà anche cercare di acquisire una visione di insieme del problema della vera essenza del cristianesimo, della sua collocazione nella storia delle religioni e nell’esistenza umana. Vorrei proseguire in questa direzione, mettendo in luce come alle sue origini lo stesso cristianesimo ha concepito la sua pretesa nel cosmo delle religioni.
A mia conoscenza, il testo dell’antichità cristiana più utile a chiarire questi problemi e è il confronto di Agostino con la filosofia religiosa del “più erudito dei romani”, Marco Terenzio Varrone (116- 27 a .C.). Varrone condivideva l’immagine stoica di Dio e del mondo: definì Dio animam motu ac ratione mundum gubernantem (“L’anima che dirige il mondo attraverso il movimento e la ragione”): in altri termini, come l’anima del mondo che i greci definivano cosmo: hunc ipsum mundum esse deum. E vero, questa anima del mondo non riceve culto, non e oggetto di religio: veritá e religione, conoscenza razionale e ordine cultuale si situavano cioè su due piani totalmente differenti. L’ordine cultuale, il mondo concreto della religione, non apparteneva all’ordine della res, della realtà in quanto tale, ma a quella dei mores – dei costumi –. Non erano gli dei che avevano creato lo stato, era lo stato che aveva istituito gli dei, la cui venerazione era essenziale per l’ordine dello stato e la buona condotta dei cittadini. La religione era, nella sua essenza, un fenomeno politico. Varrone distingueva così tre generi di “teologie”, intendendo per teologia la ratio, quae de diis explicatur, la comprensione e la spiegazione del divino, potremmo tradurre noi. Erano la theologia mythica, la theologia civilis e la theologia naturalis.
Mediante quattro definizioni, egli chiariva cosa fossero queste “teologie”. La prima definizione era riferita alle tre tipologie di teologi annoverati sotto queste tre teologie: i teologi della teologia mitica erano i poeti, perché avevano composto dei canti sugli dei ed erano pertanto dei cantori della divinità, i teologi della teologia fisica (naturale) erano i filosofi, e cioè gli eruditi, i pensatori che, andando al di la delle abitudini, si interrogavano sulla realtà, sulla verità. I teologi della teologia civile erano i “popoli”, che avevano scelto di non associarsi con i filosofi (con la verità), ma con i poeti, con le loro visioni, con le loro immagini e con le loro figure.
La seconda definizione concerneva il luogo della realtà nel quale veniva collocata la teologia in questione. Sotto questo aspetto, alla teologia mitica corrispondeva il teatro, che svolgeva un ruolo del tutto religioso, cultuale: a Roma era opinione diffusa che gli spettacoli fossero stati istituiti per volontà degli dei. Alla teologia politica corrispondeva la urbs, mentre lo spazio proprio della teologia naturale sarebbe stato il cosmo.
La terza definizione designava il contenuto delle tre teologie: quello della teologia mitica sarebbe stato costituito dai racconti sugli dei creati dai poeti: quello della teologia dello stato dal culto; la teologia naturale avrebbe dovuto chiarire chi fossero gli dei. Questo punto merita un riferimento più preciso: “Se – come dice Eraclito – sono fatti di fuoco o – come dice Pitagora – di numeri, o – come dice Epicuro – di atomi e di altre cose ancora che le orecchie possono sopportare più facilmente tra le pareti di una scuola che all’esterno, sulla pubblica piazza”.
È evidente che questa teologia naturale corrispondeva a una demitologizzazione o, meglio, a una razionalità che, con il suo approccio critico, guardava a quel che era al di là dell’apparenza mitica e decomponeva quest’ultima con l’aiuto delle scienze naturali.
Culto e conoscenza si separavano completamente l’uno dall’altra. Il culto restava necessario nella misura in cui era una questione di utilità politica; la conoscenza aveva un effetto distruttivo sulla religione e pertanto non avrebbe dovuto essere messa sulla pubblica piazza.
La quarta definizione, infine, riguardava il genere di realtà rappresentato dalle diverse teologie. In merito Varrone affermava che la teologia naturale si occupava della “natura degli dei” (che in realtà non esistono): le altre due teologie trattavano dei divina instituta hominum (delle istituzioni divine degli uomini). Tutta la differenza si riduceva così a quella tra la fisica, nel suo senso antico, e la religione cultuale. “In fin dei conti, la teologia civile non ha nessun dio, ma solo la ‘religione’; la teologia naturale non ha religione, ma solo una divinità”. Non poteva avere nessuna religione, perché non era possibile rivolgere religiosamente la parola a un Dio fatto di fuoco, di numeri e di atomi.
Cosí religio (termine che designa essenzialmente il culto) e realtà (la conoscenza razionale del reale) si collocavano l’una a fianco all’altra come due sfere separate. La religio non traeva la sua giustificazione dalla realtà del divino, ma dalla sua funzione politica. Era un’istituzione di cui lo stato aveva bisogno per la propria esistenza. Indubbiamente, ci troviamo qui davanti a una fase tardiva della religione, nella quale l’ingenuità del mondo religioso era stata infranta e ne veniva pertanto iniziata la decomposizione. Ciò nondimeno, il legame essenziale della religione con la comunità dello stato divenne più profondo. Il culto, in ultima istanza, apparteneva a un ordine positivo che, in quanto tale, non poteva essere misurato sul problema della verità.
Mentre Varrone, in un’ epoca in cui la funzione politica restava sufficientemente forte da trovare giustificazione in quanto tale, poteva ancora difendere il culto motivato politicamente a partire da una concezione piuttosto rozza della razionalità e dell’assenza di verità, il neoplatonismo avrebbe presto cercato un’altra via di uscita dalla crisi, la stessa che l’imperatore Giuliano avrebbe poi intrapreso nel tentativo di ristabilire la religione romana dello stato: i poeti usavano immagini che non dovevano essere interpretate in senso fisico: ma erano nondimeno immagini che esprimevano quel che restava inesprimibile per tutti gli uomini cui era preclusa la strada maestra dell’unione mistica. Le immagini, benché non vere in quanto tali, venivano allora giustificate come un modo per accostarsi a ciò che doveva necessariamente restare per sempre inesprimibile.
La conoscenza, base della fede cristiana
In tal modo abbiamo anticipato. Infatti, la posizione neoplatonica era già, da parte sua, una reazione contro la posizione cristiana sulla questione della fondazione cristiana del culto e della fede che ne era alla base. della topografia di questa fede nella tipologia delle religioni. Torniamo dunque ad Agostino. Dove colloca il cristianesimo nella triade delle religoni di Marrone? Meraviglia il fatto che, senza la minima esitazione, egli individuasse il posto del cristianesimo nel campo della “teologia fisica”, nel campo della razionalità filosofica. In questo era in perfetta continuità con i teologi del cristianesimo a lui precedenti, gli apologeti del II secolo, e persino con Paolo e la sua topografia della realtà cristiana nel primo capitolo della Lettera ai Romani. Una topografia che, a sua volta, si basava sulla teologia vetero-testamentaria della sapienza e risaliva anche oltre quest’ultima, sino ai salmi e al loro farsi scherno degli dei. In tale prospettiva, il cristianesimo aveva i suoi precursori e la sua preparazione interna nell’ambito della razionalità filosofica e non in quello delle religioni.
Secondo Agostino e secondo la tradizione biblica, a suo parere normativa, il cristianesimo non era affatto basato su delle immagini e su delle suggestioni mitiche la cui giustificazione si trovava, in fin dei conti, nella loro utilità politica ma, al contrario, guardava alla sfera divina che si può cogliere attraverso l’analisi razionale della realtà. In altri termini, Agostino identificava il monoteismo biblico con le visioni filosofiche sul fondamento del mondo che si erano formate, con diverse varianti, nella filosofia antica. In tal senso il cristianesimo, dall’areopago di san Paolo, si presentò con la pretesa di essere la religione vera.
Questo vuol dire che la fede cristiana non si basa sulla poesia o sulla politica, le due grandi fonti della religione, ma sulla conoscenza. Essa venera quell’Essere che si trova a fondamento di tutto ciò che esiste il “vero Dio”. Nel cristianesimo, la razionalità divenne religione e non più sua avversaria. Stando così le cose, il cristianesimo, comprendendo se stesso come vittoria della demitologizzazione, vittoria della conoscenza e con essa della verità, dovette necessariamente considerarsi come universale ed essere portato a tutti i popoli: non come una religione particolare che ne reprimeva delle altre, non come una sorta di imperialismo religioso, ma piuttosto come la verità che rendeva superflua l’apparenza. Proprio per questo, nell’ampia tolleranza dei politeismi, esso sembrò inevitabilmente intollerabile, e persino nemico della religione, una sorta di «ateismo». Non si limitava a relativizzare e trasformare le immagini, ma nel far questo ostacolava l’uso politico delle religioni e metteva dunque in pericolo i fondamenti dello stato, nell’ambito del quale non voleva essere una religione tra le altre, ma la vittoria dell’intelligenza sul mondo delle religioni.
D’altra parte, la forza di penetrazione del cristianesimo si ricollega con questa topografia del mondo cristiano nell’universo della religione e della filosofia. Già prima che avesse inizio la missione cristiana, alcuni circoli colti dell’antichità avevano cercato nella figura dell’“uomo che teme Dio” un’unione con la fede giudaica. Quest’ultima sembrava loro una figura religiosa del monoteismo filosofico rispondente sia alle esigenze della ragione sia al bisogno religioso dell’uomo. A tale bisogno non poteva rispondere la filosofia da sola: non si prega un Dio semplicemente pensato. Ma laddove il dio trovato dal pensiero si lasciava incontrare nel cuore della religione come un dio che parlava e che agiva, il pensiero e la fede si riconciliavano. In questa unione con la sinagoga vi era ancora un residuo di insoddisfazione: il non ebreo infatti poteva essere soltanto un semplice associato, non poteva arrivare a una totale appartenenza. Questo limite fu superato nel cristianesimo grazie alla figura di Cristo, come fu interpretata da Paolo. Oramai, il monoteismo religioso del giudaismo era divenuto universale, e cosi l’unità tra pensiero e religione, la religio vera, era divenuta accessibile a tutti.
Giustino il filosofo. Giustino martire (+167) è una figura emblematica di questo accesso al cristianesimo: dopo avere studiato tutte le filosofie, egli alla fine riconobbe il cristianesimo come la vera philosophia. Nelle sue convinzioni, solo divenendo cristiano non solo non aveva rinnegato la filosofia, ma era divenuto veramente un filosofo. La convinzione che il cristianesimo fosse una filosofia, la filosofia perfetta. quella che poteva giungere sino alla verità, avrebbe resistito per lungo tempo anche dopo l’età patristica. La ritroviamo ancora nel XIV secolo, nella teologia bizantina di Nicolas Cabasilas, come fatto del tutto normale. Certo, allora non ci si riferiva alla filosofia soltanto come disciplina accademica di natura puramente teorica, ma anche e soprattutto, su un piano più concreto, come arte del vivere e del morire nel giusto, un’arte che tuttavia poteva riuscire soltanto alla luce della verità.
I legami con la metafisica e con la storia
La saldatura tra razionalità e fede, realizzatasi nello sviluppo della missione cristiana e con la costruzione della teologia cristiana, apportò anche alcuni correttivi decisivi all’immagine filosofica di Dio, di cui due almeno vanno menzionati. Il primo era costituito dal fatto che il Dio in cui i cristiani credevano e che veneravano, a differenza delle divinità mitiche e politiche, era realmente natura Deus: e in questo rispondeva alle esigenze della razionalità filosofica.
Ma allo stesso tempo valeva anche un altro aspetto: non tamen omnis natura est Deus (non tutto ciò che è natura è Dio). Dio è Dio per natura, ma la natura in quanto tale non e Dio. Si produceva una separazione tra la natura universale e l’essere che la fondava, che le dava origine. Solo allora si arrivò a distinguere chiaramente tra loro fisica e metafisica. Solo il vero Dio, che il pensiero consentiva di riconoscere nella natura, diveniva oggetto di preghiera. Ma egli era qualcosa di più della natura. La precedeva, ed essa era una sua creatura.
A questa separazione tra la natura e Dio si aggiungeva una seconda scoperta, ancora più decisiva: il dio, la natura, l’anima del mondo o qualunque nome gli si desse, non aveva potuto essere oggetto di preghiera; come abbiamo constatato, non era un “dio religioso”. Adesso, ed e quanto già diceva la fede dell’Antico e ancor più del Nuovo Testamento, quel Dio che precedeva la natura si era volto verso l’uomo. E proprio perché non era semplicemente la natura, non era un Dio silenzioso. Era entrato nella storia, era venuto incontro all’uomo, e per questo l’uomo poteva incontrarlo. L’uomo poteva unirsi a Dio perché Dio si era unito all’uomo.
Le due dimensioni della religione, che erano sempre state separate tra loro, la natura nel suo regno eterno e il bisogno di salvezza dell’uomo che soffre e che lotta, erano state congiunte tra loro. La razionalità poteva diventare religione perché il Dio della razionalità era entrato egli stesso nella religione. In fin dei conti, l’elemento che rivendicava la fede, la parola storica di Dio, non costituiva forse il presupposto perché la religione potesse volgersi oramai verso il Dio filosofico, che non era un Dio puramente filosofico e che nondimeno non respingeva la filosofia, ma anzi la assumeva? Qui si manifestava una cosa stupefacente: i due principi fondamentali apparentemente contrari del cristianesimo – legame con la metafisica e il legame con la storia – si condizionavano e si rapportavano reciprocamente; insieme formavano l’apologia del cristianesimo come religio vera.
Si può dunque dire che la vittoria del cristianesimo sulle religioni pagane fu resa possibile fondamentalmente dalla sua pretesa di intellegibilità. Ma bisogna aggiungere che a questo fatto ne era associato un secondo di non minore importanza. In termini generali, esso consisteva principalmente nella serietà morale del cristianesimo, caratteristica che anche Paolo, del resto, aveva già messo in rapporto con la razionalità della fede cristiana: in fondo, l’oggetto della legge, le esigenze essenziali del Dio unico messe in luce dalla fede cristiana in considerazione della vita dell’uomo, rispondeva alle esigenze del cuore dell’uomo, di ogni uomo, di modo tale che, quando all’uomo veniva presentata questa legge, egli la riconosceva come il Bene. Essa corrispondeva a ciò che “è buono per natura” (Rm 2.14s).
È evidente qui l’allusione alla morale stoica, alla sua interpretazione etica della natura, presente anche in altri testi paolini, come nella lettera ai Filippesi: “Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtú e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri” (Fil 4,8). Così, da allora l’unione di fondo (ancorché critica) con la razionalità filosofica presente nella nozione di Dio, si confermò e si concretizzò nell’unione, anch’essa critica, con la morale filosofica. E come nell’ambito religioso il cristianesimo superava i limiti della saggezza della filosofia di scuo1a, proprio per il fatto che il Dio pensato si lasciava incontrare come un Dio vivente, così in tal caso si verificava un superamento della teoria etica in una prassi morale, vissuta e realizzata in modo comunitario, nella quale la prospettiva filosofica veniva trascesa e trasposta nell’azione reale, in particolare mediante la concentrazione di tutta la morale sul duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo.
Semplificando, si potrebbe dire che il cristianesimo convinceva per il legame della fede con la ragione e per l’orientamento dell’azione verso la caritas, la cura caritativa dei sofferenti, dei poveri e dei deboli, al di là di ogni limite di condizione. Che in ciò stesse la forza del cristianesimo, è particolarmente chiaro dal modo in cui l’imperatore Giuliano cercò di ristabilire, in forme rinnovate, il paganesimo. Lui, il pontifex maximus del ristabilimento della religione degli antichi dei, istituì – cosa mai vista sino ad allora – una gerarchia pagana, fatta di sacerdoti e di metropoliti. I sacerdoti dovevano essere esempi di moralità, dovevano dedicarsi all’amore di Dio (la divinità suprema al di sopra di tutti gli dei) e del prossimo. Erano obbligati a fare atti di carità noi confronti dei poveri, non era loro consentito leggere commedie lassiste e romanzi erotici e, nei giorni di festa, dovevano predicare su un argomento filosofico per istruire e per formare il popolo. Al riguardo Teresio Bosco diceva, a ragione, che l’imperatore, in realtà, cercava in tal modo non di ristabilire il paganesimo, ma di cristianizzarlo, in una sintesi, forzata in direzione del culto degli dei, tra la razionalità e la ragione.
Guardando al passato, possiamo dire che la forza che ha trasformato il cristianesimo in una religione mondiale sta nella sintesi da esso operata tra ragione, fede e vita, brevemente indicata con l’espressione religio vera. Si impone allora la questione del perché oggi questa sintesi non convinca più, e razionalità e cristianesimo siano anzi considerati come contrapposti e persino reciprocamente escludentisi. Cosa è cambiato nella razionalità e cosa è cambiato nel cristianesimo perché sia potuto accadere questo? Un tempo il neoplatonismo, in particolare Porfirio, aveva opposto alla sintesi cristiana un’altra interpretazione del rapporto tra filosofia e religione, un’interpretazione che si proponeva come una rifondazione filosofica della religione degli dei. Essa era alla base del tentativo di Giuliano, che proprio su di essa si arenò.
Ma oggi e proprio quest’altro modo di armonizzare la religione e la razionalità che sembra imporsi come la forma della religiosità più adatta alla coscienza moderna. Porfirio formulava così la sua prima idea fondamentale: latet omne verum (la veritá e nascosta). Ricordiamoci la parabola dell’elefante, che è esattamente ispirata da questa idea sulla quale convergono buddhismo e neoplatonismo. Secondo essa, sulla veritá, su Dio, non esistono certezze, ma solo delle opinioni.
Nella crisi di Roma del tardo IV secolo, il senatore Simmaco – immagine speculare di Varrone e della sua teoria della religione – ricondusse la concezione neoplatonica ad alcune formule semplici e concrete, che possiamo ritrovare nel discorso da lui tenuto nel 384 davanti all’imperatore Valentiniano II a difesa del paganesimo e a favore del ristabilimento della dea Vittoria nel senato romano. Cito soltanto la frase decisiva. divenuta celebre: “Tutti venerano la stessa cosa; noi pensiamo a un’unica cosa, contempliamo le stesse stelle, unico è il cielo sopra di noi, il mondo che ci circonda è il medesimo. Le diverse forme di conoscenza attraverso cui ciascuno cerca la verità non hanno importanza. Non si può giungere a un mistero così grande attraverso una sola via”.
La razionalità di oggi dice esattamente la stessa cosa: noi non conosciamo la verità in quanto tale, attraverso le immagini più diverse puntiamo alla stessa cosa. Un mistero così grande come il divino non può essere ridotto a una sola figura che escluda tutto le altre, a una via obbligata per tutti. Vi sono molte vie, vi sono molte immagini, tutto riflettono qualcosa del tutto e nessuna e in sé il tutto. L’ethos della tolleranza è proprio di chi riconosce in ciascuna immagine una parte del tutto, non pone la propria al di sopra di quella dell’altro e s’inserisce pacificamente nella multiforme sinfonia dell’eterno inaccessibile. Quest’ultimo, infatti, si nasconde nei simboli, ma nondimeno questi simboli sembrano costituire la nostra unica possibilità di giungere in qualche modo alla divinità.
La pretesa del cristianesimo di essere la religio vera sarebbe dunque superata dal progresso della razionalità? Si è costretti ad abbassare il livello delle sue pretese e a inserirsi nella visione neoplatonica o buddhista o induista della verità e del simbolo, ad accontentarsi – come aveva proposto Troeltsch – di mostrare del volto di Dio solo il lato rivolto verso gli europei? Bisogna andare persino al di la di Troeltsch, che ancora considerava il cristianesimo la religione più adatta all’Europa, in considerazione del fatto che oggi la stessa Europa dubita di ciò? È questa la grossa questione con la quale la Chiesa e la teologia devono confrontarsi.
Tutte le crisi interne al cristianesimo osservabili ai nostri giorni sono riconducibili solo secondariamente a problemi di tipo istituzionale. I problemi di tipo sia istituzionale sia personale nella Chiesa derivano, in ultima istanza, da questa questione e dal suo enorme peso. Nessuno può aspettarsi, neanche lontanamente, che questa provocazione fondamentale, al termine del secondo milennio cristiano, trovi una risposta definitiva in una conferenza. Essa non può assolutamente trovare una risposta puramente teorica, nella misura in cui la religione, in quanto modo di essere fondamentale dell’uomo, non è mai soltanto teoria. Esige piuttosto quella combinazione di conoscenza e di azione che era alla base della forza di convinzione del cristianesimo dei padri.
Questo non significa assolutamente che ci si possa sottrarre alle esigenze intellettuali del problema rinviando alla necessità della praxis. Per concludere, cercherò soltanto di aprire una prospettiva che potrebbe indicare la direzione. Avevamo visto che l’unità relazionale tra razionalità e fede, cui in ultima analisi Tommaso d’Aquino diede forma sistematica, fu mandata in frantumi non tanto dagli sviluppi della fede quanto piuttosto dai nuovi processi della razionalità. Quali tappe di questa separazione reciproca si potrebbero citare Cartesio, Spinoza, Kant.
La nuova sintesi inglobante tentata da Hegel non restituì alla fede il suo luogo filosofico, ma cercò di trasporla nella ragione e di abolirla come fede. A questa assolutezza dello spirito, Marx oppose l’unicità della materia, e da allora la filosofia fu del tutto ricondotta alla scienza esatta. Solo alla conoscenza scientifica veniva riconosciuto il titolo di conoscenza. L’idea del divino veniva cosi congedata. La profezia di Auguste Comte secondo cui un giorno vi sarebbe stata una fisica dell’uomo e le grandi questioni sino ad allora lasciate alla metafisica sarebbero state trattate in modo altrettanto “positivo” di tutto quanto era già scienza positiva, ha avuto nelle scienze umane del nostro secolo un’eco impressionante.
La separazione operata dal pensiero cristiano tra fisica e metafisica è stata sempre più abbandonata. Tutto doveva divenire nuovamente “fisica”. La teoria dell’evoluzione si è sempre più consolidata come la via diretta per far scomparire definitivamente la metafisica, per rendere superflua l’“ipotesi di Dio” (Laplace) e formulare una spiegazione del mondo strettamente “scientifica”. Una teoria dell’evoluzione che spiega complessivamente tutto il reale, è divenuta una sorta di “filosofia prima” che rappresenta, per cosi dire, il fondamento vero della comprensione razionale del mondo. Ogni tentativo di mettere in gioco cause diverse da quelle elaborate da una tale teoria “positiva”, ogni tentativo di “metafisica” deve apparire come una caduta al di sotto della ragione, come un’involuzione rispetto alla pretesa universale della scienza. Così, l’idea cristiana di Dio è necessariamente considerata come non scientifica. A questa idea non corrisponde più nessuna theologia physica: l’unica theologia naturalis è in questa visione la dottrina dell’evoluzione, e questa, per l’appunto, non conosce alcun Dio o Creatore nel senso del cristianesimo (dell’ebraismo e dell’islam), né alcuna anima del mondo o dinamismo interiore nel senso della Stoa. Eventualmente si potrebbe, nel senso del buddismo, considerare il mondo intero come un’apparenza e il nulla come il vero reale, e giustificare in questo senso le forme mistiche della religione: perlomeno quelle che non sono in concorrenza diretta con la ragione.
La razionalità del cristianesimo
Ci si può chiedere se con questo sia stata detta l’ultima parola, se la separazione tra ragione e cristianesimo sia oramai definitiva. In ogni caso, non si può fare a meno di affrontare la discussione sulla portata della dottrina dell’evoluzione come filosofia prima e sull’esclusività del metodo positivo come unica modalità di scienza e di razionalità. Una tale discussione dovrà dunque essere intrapresa dall’una e dall’altra parte con serenità e nella disponibilità ad ascoltare, cosa che è tuttora riuscita solo in piccola parte. Nessuno potrà seriamente dubitare delle prove scientifiche dei processi micro-evolutivi.
A questo proposito, R. Junker e S. Sherer dicono sull’evoluzione nel loro «manuale critico» (kritisches Lesebuch): “Avvenimenti del genere (i processi micro-evolutivi) sono ben noti a partire dai processi naturali di variazione e di formazione. Il loro esame mediante la biologia dei processi evolutivi condusse a conoscenze significative riguardanti l’eccezionale capacità di adattamento dei sistemi viventi”. Essi sembrano dunque affermare che la ricerca delle origini si può definire a buon diritto come la disciplina maestra della biologia. La questione che un credente deve porsi di fronte alla ragione moderna non ha a che fare con tutto questo. Riguarda piuttosto l’ambito di estensione di una philosophia universalis che pretende di diventare una spiegazione generale del reale e tende a cancellare ogni altro livello di pensiero. Nella stessa dottrina dell’evoluzione, il problema si pone in relazione al passaggio dalla micro alla macro-evoluzione, passaggio riguardo il quale Szamarthy e Maynard Smith, entrambi convinti partigiani di una teoria inglobante dell’evoluzione, ammettono anch’essi che “non esistono ragioni teoriche che facciano ritenere che delle linee evolutive crescano con il tempo in complessità: né vi sono prove empiriche che questo accada”.
A dire il vero, la questione che qui si pone va più in profondità: si tratta di sapere se la dottrina dell’evoluzione possa presentarsi come una teoria universale di tutto il reale, al di là della quale non sono più permesse, né sono più necessarie, questioni ulteriori sull’origine e la natura delle cose, o se questioni ultime di questo genere non vadano al di là, in fondo, del campo della ricerca aperta alle scienze naturali. Vorrei porre la questione in modo ancora più concreto. Si può dire che tutto è già stato detto con una risposta del genere di quella così formulata da Popper: “La vita quale noi la conosciamo consiste in ‘corpi’ fisici (o meglio, in processi e strutture), che risolvono dei problemi. É quel che le diverse specie hanno ‘imparato’ attraverso la selezione naturale, e cioè attraverso il metodo della riproduzione più variazione; un metodo che, a sua volta, vnne ricavato attraverso lo stesso metodo. É una regressione, ma non è infinita…”. Non lo credo.
In fin dei conti, si tratta di un’alternativa che non si lascia più risolvere semplicemente dalle scienze naturali e neanche, in fondo, dalla filosofia. Si tratta di sapere se la ragione o il razionale si trovino o meno all’inizio di tutte le cose e a loro fondamento. Si tratta di sapere se alla base della realtà sono il caso e la necessità o, con Popper, seguito da But1er, il luck e il cunning ( il caso fortuito e la previsione), e dunque ciò che è senza ragione; se, in altri termini, la ragione è un prodotto secondario, accidentale dell’irrazionale e, in fondo, anche insignificante nell’oceano dell’irrazionale, o se resta vera la convinzione fondamentale della fede cristiana e della sua filosofia: In principium erat Verbum – all’inizio di tutte le cose vi è la forza creatrice della ragione.
La fede cristiana è, oggi come ieri, l’opzione per la priorità della ragione e del razionale. Tale questione ultima non può più, come è stato detto, essere risolta mediante argomenti tratti dalle scienze naturali, e il pensiero filosofico stesso si scontra con i suoi limiti. In tal senso non si può fornire prova ultima dell’opzione cristiana fondamentale. Ma la ragione può, alla fin fine, senza rinnegare se stessa, rinunciare alla priorità del razionale sull’irrazionale, all’esistenza originale del Logos?
Il modello ermeneutico offerto da Popper, che ritorna sotto diverse forme in altre presentazioni della “filosofia prima”, mostra che la ragione non può impedirsi di pensare l’irrazionale secondo la sua misura, e dunque razionalmente (risolvere dei problemi, elaborare dei metodi!), ristabilendo in tal modo implicitamente il primato contestato dalla ragione. Per la sua opzione a favore del primato della ragione, il cristianesimo resta ancora oggi “razionalità”, e credo che una razionalità che si sbarazzi di quell’opzione significherebbe, contrariamente alle apparenze, niente affatto un’evoluzione, bensì un’involuzione della razionalità.
Avevamo visto prima che nella concezione dell’antichità cristiana, le nozioni di natura, uomo, Dio, ethos e religione erano indissolubilmente legate tra loro e che proprio questo legame indissolubile aveva aiutato il cristianesimo a vedere chiaro nella crisi degli de e nella crisi dell’antica razionalità. L’orientamento della religione verso una visione razionale del reale in quanto tale, l’ethos come parte di questa visione, e la sua applicazione concreta sotto il primato dell’amore si saldarono tra loro. Il primato del logos e il primato dell’amore si rivelarono identici. Il logos apparve non solo come la ragione matematica che era alla base di tutte le cose, ma come l’amore creatore che arrivava a diventare compassione nei confronti della creatura.
La dimensione cosmica della religione che, nella potenza dell’essere, venera il Creatore, e la sua dimensione esistenziale, la questione della redenzione, si compenetrarono e divennero un unico problema. Di fatto, una spiegazione del reale che non possa fondare in modo sensato e comprensivo anche un ethos, deve restare necessariamente insufficiente. Ora, è un fatto che la teoria dell’evoluzione, laddove essa si arrischia a estendersi sino alla philosophia universalis, tenta anche di rifondare l’ethos sulla base dell’evoluzione. Ma questo ethos dell’evoluzione, che trova ineluttabilmente la sua nozione chiave nel modello della selezione, e dunque nella lotta per la sopravvivenza nella vittoria del più forte, nell’adattamento riuscito, ha da offrire ben poche consolazioni. Anche laddove si cerchi di imbellirlo in diversi modi, resta sempre un ethos crudele.
Il tentativo di distillare il razionale a partire da una razionalità in se stessa insensata si arena qui in maniera evidente. Tutto questo risponde ben poco a ciò di cui noi abbiamo bisogno: un’etica della pace universale, dell’amore concreto del prossimo e del necessario superamento del bene individuale.
Il tentativo di restituire, in questa crisi dell’umanità, un significato globale alla nozione di cristianesimo come religio vera, deve per così dire puntare parallelamente sull’ortoprassi e sull’ortodossia. Il suo contenuto, oggi come un tempo, dovrà consistere, più profondamente, nella coincidenza tra amore e ragione in quanto pilastri fondamentali propriamente detti del reale: la ragione vera è l’amore e l’amore è la ragione vera. Nella loro unità essi costituiscono il fondamento vero e il fine di tutto il reale.
Joseph Ratzinger