Pubblichiamo integralmente il testo inedito dell’intervento che l’allora cardinale Joseph Ratzinger fece presso la sede nazionale delle Acli, a Roma, il 27 ottobre 1999 durante il convegno sul pensiero del cardinale Pietro Pavan dal titolo «La Sussidiarietà nel tempo della globalizzazione». Il simposio si svolse a cinque anni dalla morte del porporato, che Ratzinger ricordò con uno scritto dal titolo «Il mio amico Pavan». La mia testimonianza ha due limiti. Il primo è che sono incompetente in materia di dottrina sociale, la materia del cardinale Pavan. Il secondo limite è che ho fatto amicizia con Pavan soltanto molto tardi, verso la fine della sua vita. L’incontro però mi ha impressionato ed è proprio di questo che vorrei parlare, con grande semplicità.
A dire il vero ho sentito il nome di Pavan per la prima volta nel 1963, nel contesto della pubblicazione della Lettera enciclica di Papa Giovanni XXIII «Pacem in Terris». Si disse allora che un certo professor Pavan, dell’Università del Laterano, sarebbe stato il redattore principale del testo in quanto amico di Papa Giovanni, il quale aveva visto realizzate in lui le sue idee. Grazie a questa profonda amicizia Pavan poteva quindi essere, per così dire, la “penna” di Papa Giovanni.
Tutti sappiamo che la Pacem in Terris ha attirato l’attenzione soprattutto sul punto dove il Papa, senza parlare esplicitamente del marxismo o dei regimi comunisti, si esprimeva sulla possibilità di una convivenza. Per questo è stata strumentalizzata dalla politica, il che mi ha stimolato a interessarmi in maniera particolare di questo testo per vedere cosa l’Enciclica dicesse veramente.
Mentre la leggevo pensavo anche di intravedere, assieme alla figura di Papa Giovanni, anche quella del suo amico e ho scoperto che il punto fondamentale era la distinzione di due realtà. La prima era l’ideologia dominante: inflessibile, invariabile e, come dice l’Enciclica, «ispirata da una filosofia falsa sull’origine, l’essenza e il destino del mondo e dell’uomo». Si trattava di una constatazione molto precisa; un “no” ad una ideologia falsa, che non interpreta bene l’essenza dell’uomo, del mondo, del suo destino, la sua origine. Ma il Papa, e con lui il professore Pavan di quel tempo, distingueva da questa ideologia dominante un’altra realtà. Diceva in sostanza che nonostante la dominazione di questa ideologia falsa e inflessibile la realtà apre qualche volta, qua e là, anche altre strade. La realtà costringe a cercare altre vie, secondo una recta ratio, una sana ragione, che corrisponde alle esigenze profonde della persona. Si tratta di realtà che offrono la possibilità di certi contatti e rapporti che devono essere accettati e coltivati in quanto possono essere considerati porte che potrebbero aprire qualche possibilità di coesistenza.
Sempre parlando sicut insipiens, tale visione a me sembrava molto importante e molto interessata; dotata di grande chiarezza a livello dottrinale, filosofico e del pensiero fondamentale sull’uomo e sul mondo ma con anche un realismo ispirato da ottimismo. Anzi, direi non semplicemente da ottimismo ma da una fiducia nelle forze sane e nella creatura uomo. La fiducia cioè che nell’uomo vive sempre la ragione e può superare tutti gli impedimenti e le barriere ideologiche.
È la fiducia che nell’uomo l’immagine di Dio non può mai essere totalmente distrutta e la scintilla della luce divina vive nella creatura umana. Questa scintilla può far rivivere la recta ratio, la vera ragione dell’uomo e può far rivivere le esigenze della persona umana in uno sviluppo difficile, complicato, lento. Questa era la fiducia che il peccato non poteva mai distruggere totalmente l’immagine di Dio in noi e che Dio, nonostante tutto il potere della menzogna di altre realtà, ha forza nel mondo e in noi; per questo dobbiamo essere attenti ai piccoli segnali di questa scintilla divina nell’uomo.
Mi sembra che la realtà abbia finalmente confermato questa visione. Non si può in permanenza e per sempre reprimere la scintilla della recta ratio; cioè della luce di Dio in noi.
Abbiamo visto che la realtà è più forte delle ideologie e che la recta ratio, la luce di Dio, è una realtà. Quando parliamo di realismo spesso pensiamo soltanto alle cose materiali: ai poteri militari, economici o ad altre cose di questo genere, mentre dimentichiamo che anche questa realtà invisibile, che sembra apparentemente impotente, è invece qualcosa di concreto.
Nel crollo dei governi dell’Est abbiamo visto che hanno cooperato tanti fattori ma mi sembra che non si possa negare che proprio la scintilla della luce divina nell’uomo sia stata determinante in questo processo. È stata così confermata la visione di quella Enciclica.
Per questo motivo non parlerei più di “ingenuo ottimismo”, come molti hanno fatto in quel momento nei confronti del Papa e forse anche del professor Pavan. Penso infatti che quella, più che ottimismo fosse speranza. Speranza che a lunga scadenza Dio ha ragione; Dio ha potere nel mondo e nell’essere umano.
Purtroppo in quel momento la propaganda politica ha oscurato questa visione contenuta nel testo. I regimi comunisti lo hanno sfruttato per la loro ideologia e purtroppo anche l’Occidente ha accettato la loro interpretazione, opponendosi all’Enciclica invece di coglierne la profondità. Questo mi sembra possa dire qualcosa anche a noi. Troppo spesso infatti siamo veloci nel concentrarci su problemi che riguardano il potere politico, economico e militare mentre dimentichiamo le realtà silenziose, poco evidenti; come la scintilla di Dio che è in noi, ma che a lunga scadenza sono determinanti.
Leggendo e meditando la Pacem in Terris così ho pensato di capire non solo l’anima di Papa Giovanni ma anche qualcosa del suo redattore.
A quel tempo in Germania non c’era molta stima per la Dottrina sociale della Chiesa, che era considerata come una cosa astratta e senza una reale incisività. Leggendo l’Enciclica ho però pensato che Pavan era un uomo che conosceva bene i principi e li sapeva collegare con la realtà. Un uomo che aveva una perfetta competenza nel suo campo ma che sapeva anche pensare con il cuore della fede; con il cuore di un pastore. Mi ero fatto così l’idea che egli non fosse soltanto un grande professore ma anche un vero pastore, un uomo saggio e un uomo credente; senza alcuna contraddizione, poiché le due cose erano in lui complementari.
Il primo vero incontro tra me e Pavan è avvenuto nel 1982 o nel 1983, non ricordo esattamente. In quel tempo l’Episcopato americano preparava una grande lettera pastorale sul tema della pace, della guerra e sugli armamenti. Era il momento in cui i due Blocchi si armavano e potenziavano sempre più l’arsenale nucleare, al punto che i cristiani hanno sentito il bisogno di dire qualcosa: si può andare avanti così? Si può accumulare tanto potere distruttivo o sfruttare per la guerra così tanti mezzi, che potrebbero invece essere utilizzati per fare del bene?
Le domande erano grandi e ricordo di aver discusso diverse volte con il cardinale Casaroli su simili argomenti. In quella situazione la lettera pastorale degli americani interessava tutto il mondo, perciò la Santa Sede invitò i rappresentanti di tutti gli episcopati occidentali a discuterla. Fu invitato come esperto anche il professor Pavan e io ero moderatore della riunione. Quell’incontro confermò perfettamente l’idea che venti anni prima mi ero fatto di questa persona. Non ricordo più gli argomenti e i contenuti di quel dialogo ma ricordo l’evidente competenza scientifica di Pavan e la sua profonda umanità, l’allegria della fede così visibile sulla faccia, la sintesi tra capacità pastorali e cultura.
Il secondo incontro personale avvenne all’incirca dieci anni dopo. Ero presidente della commissione per l’elaborazione del Catechismo della Chiesa cattolica e avevamo trasmesso il progetto non solo a tutte le conferenze episcopali e a tutti i maggiori istituti di catechesi ma anche ad ogni singolo vescovo, per avere una risposta ampia e il contributo di tutta la Chiesa cattolica. Il testo dunque venne trasmesso anche al cardinale Pavan, il quale venne a trovarmi per dirmi che aveva letto attentamente il progetto e che con i suoi anni non si riteneva più in grado di formulare un voto scritto, ma aveva intenzione di spiegarmi a voce le sue osservazioni. Ancora una volta non ricordo più esattamente i contenuti del dialogo ma ebbi di nuovo la stessa impressione: era un uomo di grande competenza, in grado di fare osservazioni precise e frutto della sensibilità di un pastore che sa come parlare al mondo contemporaneo.
Il cardinale mi ha poi invitato con grande cordialità al «Paesetto della Madonna» dove abitava. Andando all’aeroporto di Fiumicino avevo visto diverse volte la collina con l’orto e ho sempre pensato che una simile oasi poteva crescere solo grazie alle mani delle suore. Ero quindi curioso di poter conoscere un giorno quel piccolo paradiso. Inoltre quando Pavan sollecitò a recarmi al «Paesetto» disse che la sua aria iodata e ossigenata sarebbe stata per me la migliore medicina dopo gli impegni, spesso gravosi, del mio ufficio.
A un tale invito non si poteva certo resistere, considerata anche la grande cordialità col quale era stato rivolto. L’occasione giunse poco tempo dopo, nel 1991. Mia sorella, come sempre, andò in Germania per visitare la tomba dei nostri genitori e io, rimasto a Roma, ne approfittai per andare al «Paesetto della Madonna». Devo dire che fu un atto della Provvidenza, perché il secondo giorno di novembre, in maniera assolutamente imprevista, mia sorella morì e solo grazie alle suore del luogo, così vicino all’aeroporto, potei vederla per alcune ore ancora viva. Anche per questo è rimasto nel mio cuore un grande ricordo di quella prima visita al «Paesetto».
Il cardinale Pavan mi fece una grande impressione. Mentre passeggiava nell’orto ho visto come parlava con le piante, con gli alberi – molti dei quali erano stati piantati da lui stesso – e come conoscesse quasi personalmente gli arbusti, i fiori, gli alberi. Sentiva la loro voce interiore; la voce di queste creature di Dio, di questi fratelli e sorelle.
Ho capito che la sua amicizia con Dio aveva creato questa sensibilità per la presenza del Creatore in tutto il creato. Ho visto come la fede diventa visione e dialogo. Ho visto un’anima realmente francescana, con l’allegria della fede, e anche vedere i suoi occhi azzurri, limpidi, brillare di gioia della fede era impressionante. Pavan aveva una profonda pace interiore e godeva di quella gioia che nasce soltanto quando uno è realmente in pace con il Creatore e quindi con sé, con il prossimo, con tutta la creazione.
Di questi incontri mi è rimasto un pensiero. A un intellettuale, un professore, la bella parola del Signore in Matteo 11 – dove il Signore benedice il Padre perché ha nascosto ai sapienti e agli intelligenti queste cose (cioè il mistero trinitario e il mistero dell’incarnazione) per rivelarle ai piccoli e ai semplici – fa inevitabilmente un po’ male.
Un intellettuale qualche volta si poterebbe domandare: siamo forse noi degli esclusi? Siccome è rivelato solo ai piccoli e ai semplici, dovremmo non fare uso della nostra intelligenza? Conoscendo il cardinale Pavan non solo ho trovato ma ho visto la risposta. Lui era senza dubbio sapiente e intelligente ma con una sapienza che non aveva oscurato la semplicità del cuore. Al contrario, aveva creato la vera e profonda semplicità; quella che fa vedere. Così ho capito che esiste una sapienza che non solo non contrasta con la semplicità, ma che la vera sapienza fa semplici e fa tenere gli occhi aperti sui misteri di Dio.
Questa è una grande consolazione: possiamo imparare una sapienza che non contrasta con la vera semplicità, che non ci esclude dalla visione dei misteri divini ma al contrario ci apre gli occhi. Il cardinale Pavan mi è rimasto nella memoria come grande modello di uomo intelligente e credente.