PRESENTAZIONE DEL “TRITTICO ROMANO”
NUOVO LIBRO DI POESIE DI GIOVANNI PAOLO II
PROLUSIONE DELL’EM.MO CARD. JOSEPH RATZINGER
Giovedì, 6 marzo 2003
La prima tavola del trittico romano di Papa Giovanni Paolo II rispecchia l’esperienza della creazione, della sua bellezza, del suo dinamismo. Vi appare l’immagine delle colline boscose, e anche, più forte ancora, l’immagine delle acque che scorrono verso valle, dell’ “argentata cascata del torrente, che dal monte cade ritmato”. A questo proposito mi sono ritornate in mente alcune frasi scritte da Karol Wojtyła nel 1976, quando predicò gli Esercizi per Paolo VI e la Curia. Egli racconta di un fisico con il quale aveva discusso a lungo e che alla fine gli aveva detto: “dal punto di vista della mia scienza e del suo metodo sono ateo…”. Tuttavia, in una lettera lo stesso uomo gli scrisse: “Ogni volta che mi trovo davanti alla maestà della natura, dei monti, sento che LUI esiste”. Si tratta di due modi diversi di percepire la natura! Certo, la prima tavola del trittico si ferma quasi con timidezza sulla soglia. Il Papa non parla ancora direttamente di Dio. Egli prega però come si prega un Dio ancora ignoto: “Consentimi di aspergere le labbra d’acqua della sorgente, di percepire la freschezza – freschezza vivificante”. Così parlando egli cerca la sorgente e riceve l’indicazione: “Se vuoi trovare la sorgente, devi proseguire in su, controcorrente”. Nel primo verso della meditazione aveva detto: “Seno di bosco discende”; il bosco e le acque avevano indicato il movimento del discendere. La ricerca della sorgente, però, adesso lo obbliga a salire, a camminare controcorrente.
Ritengo che sia proprio questa la chiave di lettura delle due tavole seguenti. Esse, infatti, ci guidano nella salita “controcorrente”. Il pellegrinaggio spirituale compiuto in questo testo conduce verso il “Principio”. All’arrivo la vera sorpresa è che l’”inizio” svela anche la “fine”. Chi conosce l’origine, vede anche il dove e il perché dell’intero movimento dell’essere, il quale è divenire e proprio così anche perdurare: “Tutto perdura divenendo perpetuamente”. Il nome della sorgente che il pellegrino scopre è, anzitutto, Verbo, secondo le parole iniziali della Bibbia, ossia “Dio disse”, che Giovanni ha ripreso nel suo Vangelo riformulandole in modo insuperabile: “In principio era il Verbo”. Però, la vera parola chiave che riassume il pellegrinaggio della seconda tavola del Trittico non è “Verbo”, bensì visione e vedere. Il Verbo ha un volto. Il Verbo –, la sorgente – è una visione. Il creato, l’universo proviene da una visione. E l’uomo esce da una visione. Questa parola chiave conduce, quindi, il Papa meditante a Michelangelo, agli affreschi della Cappella Sistina, che gli sono divenuti tanto cari. Nelle immagini del mondo, Michelangelo ha scorto la visione di Dio; egli ha, per così dire, visto con lo sguardo creatore di Dio e, attraverso questo sguardo, ha riportato su muro, per mezzo di audaci affreschi, la visione originale dalla quale deriva ogni realtà. In Michelangelo, che ci aiuta a riscoprire la visione di Dio nelle immagini del mondo, sembra realizzarsi in modo esemplare ciò che è destinato a tutti noi. Di Adamo ed Eva, che rappresentano l’essere umano in generale, uomo e donna, il Papa dice: “Anche loro sono divenuti partecipanti di questa visione…”. Ogni uomo è chiamato a “riacquistare questa visione di nuovo”. Il cammino che conduce alla sorgente è un cammino per diventare vedenti: per imparare da Dio a vedere. Allora appaiono il principio e la fine. Allora l’uomo diventa giusto.
Principio e fine – probabilmente al Papa, che pellegrina verso l’interno e verso l’alto, il nesso esistente tra loro è apparso chiaro proprio nella Cappella Sistina, dove Michelangelo ci ha donato le immagini dell’inizio e della fine – la visione della creazione e l’imponente dipinto del giudizio finale. La contemplazione del Giudizio Universale, nell’epilogo della seconda tavola, è forse la parte del Trittico che commuove di più il lettore. Dagli occhi interiori del Papa emerge nuovamente il ricordo dei Conclave dell’agosto e dell’ottobre 1978. Poiché anch’io ero presente, so bene come eravamo esposti a quelle immagini nelle ore della grande decisione, come esse ci interpellavano; come insinuavano nella nostra anima la grandezza della responsabilità. Il Papa parla ai Cardinali del futuro Conclave “dopo la mia morte” e dice che a loro parli la visione di Michelangelo. La parola Con-clave gli impone il pensiero delle chiavi, dell’eredità delle chiavi lasciate a Pietro. Porre queste chiavi nelle mani giuste: è questa l’immensa responsabilità in quei giorni. Si ricordano così le parole di Gesù, il “guai” che ha rivolto ai dottori della legge: “avete tolto la chiave della scienza” (Lc 11, 52). Non togliere la chiave, ma usarla per aprire affinché si possa entrare per la porta: a questo esorta Michelangelo.
Ritorniamo però al centro vero e proprio della seconda tavola, ossia lo sguardo all’”origine”. Che cosa vi vede l’uomo? Nell’opera di Michelangelo il Creatore appare con le “sembianze di un essere umano”: l’immagine e somiglianza dell’uomo con Dio viene rovesciata in modo da poterne dedurre l’umanità di Dio, la quale rende possibile rappresentare il Creatore. Tuttavia, lo sguardo che Cristo ci ha aperto conduce ben oltre e mostra in modo rovesciato, partendo dal Creatore, dalle origini, chi l’uomo è in realtà. Il Creatore –, l’origine – non è, come potrebbe apparire nel dipinto di Michelangelo, semplicemente “l’Onnipotente Vecchio”. È invece “Comunione di persone… un reciproco donarsi…”. Se all’inizio abbiamo visto Dio partendo dall’uomo, ora impariamo a vedere l’uomo partendo da Dio: reciproco donarsi – a questo è destinato l’uomo -; se riesce a trovare la via per giungere a ciò, allora rispecchia l’essenza di Dio e dunque si svela il nesso tra il principio e la fine.
L’immenso arco, che è la vera visione del Trittico Romano, si rivela chiaramente nella terza tavola, la salita di Abramo e Isacco sul monte di Moria, il monte del sacrificio, del donarsi senza riserve. La salita è l’ultima e decisiva fase del cammino di Abramo, iniziato con la partenza dalla sua patria, Ur dei Caldei; è la fase fondamentale nella salita verso la vetta, controcorrente, verso la sorgente, che è anche la mèta. Nel dialogo inesauribile tra padre e figlio, fatto di poche parole e del portare insieme, in silenzio, il mistero di queste parole, si riflettono tutte le domande della storia, la loro sofferenza, le loro paure e speranze. Alla fine emerge che questo dialogo tra padre e figlio, tra Abramo e Isacco, è il dialogo in Dio stesso, il dialogo tra l’eterno Padre e suo Figlio, il Verbo, e che questo dialogo eterno rappresenta allo stesso tempo anche la risposta al nostro dialogo umano incompiuto. Infatti, alla fine vi è la salvezza di Isacco, l’agnello – segno misterioso del Figlio, che diviene Agnello e vittima sacrificale, svelandoci così il vero volto di Dio: quel Dio che ci dona se stesso, che è interamente dono e amore, fino all’estremo, fino alla fine (cfr. Gv 13, 1). Così, proprio in questo concretissimo evento della storia, che tanto sembra allontanarci dalle grandi vedute della creazione della prima tavola del Trittico, appare evidente l’origine e la fine di tutto, il nesso tra discesa e salita, tra sorgente, cammino e mèta: diventa riconoscibile il Dio che dona se stesso, che è al contempo principio, via e mèta. Questo Dio traspare nella creazione e nella storia.
Ci cerca nelle nostre sofferenze e nei nostri interrogativi. Ci mostra che cosa significa essere uomini: donarsi nell’amore, il che ci rende simili a Dio. Attraverso il cammino del Figlio sul monte del sacrificio si svela “il mistero celato dell’esordio del mondo”. L’amore che dona è il mistero originale e, amando anche noi, comprendiamo il messaggio della creazione, troviamo il cammino.