Brani da: J. Ratzinger, La Chiesa, Edizioni Paoline 1991, pp.20-23
Tratto da: http://web.i2000net.it/ioculano/chiesa/chiesa4.htm Dopo questo breve sguardo agli atti fondativi della Chiesa da parte di Gesù, dobbiamo ora rivolgere la nostra attenzione alla formazione della Chiesa apostolica. A tale scopo vorrei seguire due piste testuali che, risultando dalla struttura che abbiamo osservato nell’azione di Gesù, portano al cuore della testimonianza apostolica: l’espressione «popolo di Dio» e l’idea paolina del «corpo di Cristo». Di per se l’espressione «popolo di Dio» designa nel Nuovo Testamento quasi esclusivamente il popolo di Israele e non la Chiesa. Per quest’ultima viene impiegato il vocabolo ècchlesěa, che è poi passato in tutte le lingue neolatine ed è divenuta la denominazione specifica della nuova comunità nata dall’opera di Gesù. Perché è stato scelto questo termine? Che cosa si afferma di questa comunità con tale espressione? Dal ricco materiale che la ricerca più recente ha riunito sulla questione, vorrei estrapolare una sola osservazione. Il vocabolo greco, che sopravvive nel latino «ecclesia», deriva dalla radice veterotestamentaria «qăhăl», abitualmente tradotta con l’espressione «assemblea di popolo». Tali «assemblee», nelle quali il popolo si costituiva come entità cultuale e, a partire dal culto, come entità giuridica e politica, esistevano tanto nel mondo greco quanti in quello semitico.
La «qăhăl» veterotestamentaria si differenzia però dall’assemblea plenaria greca, costituita da cittadini con diritto di voto, in un duplice senso: alla «qăhăl» partecipavano anche le donne e i bambini, che in Grecia non potevano essere soggetti attivi della vita politica. Ciò dipende dal fatto che in Grecia sono gli uomini che con le loro decisioni stabiliscono quel che si deve fare, mentre l’assemblea d’Israele si riunisce «per ascoltare l’annuncio di Dio e darvi il proprio assenso». Questa concezione tipicamente biblica dell’assemblea del popolo deriva dal fatto che l’adunanza al Sinai era vista come modello e norma di tutte le successive adunanze; dopo l’esilio, essa venne ripetuta solennemente da Esdra come rifondazione del popolo. Ma per la continuazione della dispersione e il ritorno della schiavitù, sempre di più divenne nucleo centrale della speranza di Israele una «qăhăl» proveniente da Dio stesso, una nuova convocazione e fondazione del popolo. La preghiera per questa convocazione — per la nascita dell’ecclesia — appartiene al forte patrimonio della preghiera tardo-giudaica.
Risalta, dunque, il significato del fatto che la Chiesa nascente scelga appunto il nome di Chiesa. Essa dichiara in tal modo che in noi questa preghiera si è adempiuta. Cristo, morto e risorto, è il Sinai vivente; quelli che si accostano a lui formano l’assemblea eletta e definitiva del popolo di Dio (cfr. per es. Eb 12,18-24). Si capisce così perché non sia stata usata la comune definizione di «popolo di Dio» per designare la nuova comunità, ma sia stata scelta quella che indicava il centro spirituale ed escatologico del concetto di popolo. Questa nuova comunità si forma soltanto nella dinamica dell’adunanza originata da Cristo e sostenuta dallo Spirito Santo, e il centro di tale dinamica è il Signore stesso, il quale si comunica nel suo corpo e nel suo sangue. L’autodesignazione come «ecclesia» definisce il nuovo popolo nella continuità storico-salvifica dell’alleanza, ma anche da quel momento in poi, nella chiara novità del mistero di Cristo. Se va detto che «alleanza» in origine comporta essenzialmente il concetto di «legge», di giustizia, ciò significa allora che la «nuova legge», l’amore, diventa il centro decisivo, la cui misura estrema fu posta da Cristo con la sua dedizione fino alla sua morte sulla croce.
A partire da qui possiamo comprendere l’ampiezza di significato del termine «ecclesia» nel Nuovo Testamento. Esso indica sia l’assemblea cultuale, sia la comunità locale, sia la Chiesa di un più vasto ambito geografico, sia infine la stessa e unica Chiesa di Gesù Cristo. Questi significati si integrano perciò senza residui l’uno nell’altro, poiché tutto è sospeso al centro cristologico, che si concretizza nell’assemblea dei credenti alla mensa del Signore. E’ sempre il Signore che nel suo unico sacrificio riunisce a sé il suo unico popolo. In tutti i luoghi si verifica l’assemblea dell’unico popolo. Questa considerazione è sottolineata da Paolo con estrema chiarezza nella lettera ai Galati. Rifacendosi alla promessa fatta ad Abramo, egli rileva con metodi interpretativi tipicamente rabbinici che quella promessa, in tutti e quattro i punti nei quali ci viene comunicata, si rivolge a un singolare, cioè «alla tua discendenza». Dunque, conclude Paolo, vi è sempre un portatore unico e non diversi titolari della promessa. Ma come si concilia ciò con la volontà divina di salvezza universale? Attraverso il battesimo — risponde Paolo — noi siamo stati inseriti in Cristo, ricomposti in un unico soggetto insieme con lui; non più molti, uno accanto all’altro, ma «uno solo in Cristo Gesù» (Gal 3,16.26-29). Solo l’autoidentificazione di Cristo con noi, solo il nostro fonderci in lui ci rende portatori della promessa: il traguardo ultimo dell’assemblea è quello della completa unità; è il divenire «uno» con il Figlio, che permette nel contempo di entrare nell’unità vivente di Dio stesso, perché Dio sia tutto in tutti (1Cor 15,28).