Brani di: J. Ratzinger, La Chiesa, Edizioni Paoline 1991, pp.23-28
Tratti da: http://web.i2000net.it/ioculano/chiesa/chiesa5.htm La nozione neotestamentaria di popolo di Dio non va dunque in alcun modo pensata separatamente dalla cristologia. Questa, d’altra parte, non è una teoria astratta, bensì un evento che si concreta nei sacramenti del battesimo e dell’eucarestia. In essi la cristologia si apre alla dimensione trinitaria. Difatti questa infinita ampiezza e apertura pur essere solo del Cristo risorto, del quale san Paolo dice: «Il Signore è lo Spirito» (2Cor 3,17). E nello Spirito noi diciamo con Cristo: «Abbà», perché siamo diventati figli (cfr. Rm 8,15; Gal 4,5). Paolo dunque non ha introdotto in concreto nulla di nuovo chiamando la Chiesa «corpo di Cristo»; egli ci offre solo una formula concisa a indicare ciò che sin dal principio era caratteristico della crescita della Chiesa. E’ totalmente falsa l’affermazione, pur ripetuta in continuazione, che Paolo non avrebbe fatto altro che applicare alla Chiesa un’allegoria diffusa nella filosofia stoica del suo tempo. L’allegoria stoica paragona lo stato a un organismo in cui tutte le membra devono cooperare. L’idea dello Stato come organismo è una metafora per indicare la dipendenza di tutti da tutti e quindi l’importanza delle diverse funzioni che sono all’origine della vita di una collettività. Questo paragone veniva utilizzato per calmare le masse in agitazione e richiamarle alle loro funzioni: ogni organo ha una sua particolare importanza; è insensato che tutti vogliano essere una stessa cosa, perché allora, anziché divenire qualcosa di più elevato, si abbassano tutti e si distruggono a vicenda.
E’ incontestabile che Paolo ha ripreso anche questi pensieri, per esempio quando dice ai Corinti in lite fra loro che sarebbe insensato se d’improvviso il piede volesse essere mano, o l’orecchio essere occhio: «Se il corpo fosse tutto occhio, dove sarebbe l’udito? Se fosse tutto udito, dove l’odorato? Ma Dio ha disposto le membra in modo distinto nel corpo, come ha voluto… Molte sono le membra, ma uno solo è il corpo» (1Cor 12,16ss). L’idea del corpo di Cristo in san Paolo non si esaurisce tuttavia in simili riflessioni sociologiche e filosofico-morali; in tal caso sarebbe solo una glossa marginale dell’originario concetto di Chiesa. Già nel mondo precristiano greco e latino la metafora del corpo andava oltre. L’idea platonica secondo cui tutto il mondo costituisce un unico corpo, un essere vivente, fu sviluppata dalla filosofia stoica e ricollegata al concetto della divinità del mondo. Ma questo esula da ciò che qui stiamo trattando. Perché le vere radici dell’idea paolina del corpo di Cristo sono senz’altro intrabibliche. Tre sono le origini accertabili di quest’idea nella tradizione biblica.
C’è anzitutto sullo sfondo la nozione semitica di «personalità corporativa», che si esprime ad esempio nel pensiero: noi tutti siamo Adamo, un unico uomo in grande. Nell’epoca moderna con la sua esaltazione del soggetto quest’idea è diventata del tutto incomprensibile. L’io è ora una roccaforte, dalla quale non si esce più. E’ tipico il fatto che Cartesio cerchi di dedurre tutta la filosofia dall’«io penso», perché soltanto l’io appariva ancora disponibile. Oggi la nozione di soggetto a poco a poco si dissolve nuovamente: diviene evidente che non esiste un io rigidamente chiuso in se stesso, dato che molteplici forze penetrano in noi e da noi promanano. Nel contempo si torna di nuovo a comprendere che l’io si forma a partire dal tu e che i due si compenetrano reciprocamente. Così potrebbe essere di nuovo accettabile quella visione semitica della personalità corporativa, senza la quale difficilmente si può entrare nell’idea di corpo di Cristo.
Esistono, inoltre, due radici più concrete della formula paolina. L’una è presente nell’eucarestia, con la quale il Signore stesso ha formalmente determinato il sorgere di questa idea. «Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo», dice Paolo ai Corinzi, nella stessa lettera, dunque, in cui sviluppa per la prima volta la dottrina del corpo di Cristo (1Cor 10,16s). Qui noi troviamo il suo vero fondamento; il Signore diviene nostro pane, il nostro nutrimento. Egli ci fa il suo corpo; una parola che però va pensata a partire dalla risurrezione e dallo sfondo linguistico semitico da cui muove san Paolo. Il corpo è il sé di un uomo, che non si risolve nel corporeo, ma che comprende anche il corporeo, Cristo ci da se stesso, lui che, in quanto risorto, è rimasto corpo. Sebbene in modo nuovo, il fatto esteriore del mangiare diviene espressione di quel compenetrarsi di due soggetti che già poc’anzi abbiamo preso brevemente in considerazione. Comunione significa che la barriera apparentemente invalicabile del mio io viene infranta e può essere infranta poiché Gesù per primo ha voluto aprire tutto se stesso, ci ha tutti accolti dentro di sé e si è dato totalmente a noi. Comunione significa dunque fusione delle esistenze; come nell’alimentazione il corpo può assimilare una sostanza estranea e così vivere, così il mio io viene «assimilato» a Gesù stesso, fatto simile a lui in uno scambio che spezza sempre più le linee di separazione. E’ quanto avviene a quelli che si comunicano; tutti vengono assimilati a questo «pane» e divengono così tra loro una sola cosa: un solo corpo. In questo modo l’eucaristia edifica la Chiesa, aprendo le mura della soggettività e radunandoci in una profonda comunione esistenziale. Per essa ha luogo l’«adunanza» tramite la quale il Signore ci riunisce. La formula: «la Chiesa è il corpo di Cristo» afferma dunque che l’eucarestia, in cui il Signore ci da il suo corpo e fa di noi un solo corpo, è il luogo dell’ininterrotta nascita della Chiesa, nella quale egli la fonda sempre di nuovo; nell’eucaristia la Chiesa è se stessa nel modo più intenso; in tutti i luoghi e nondimeno una sola, così come lui è uno solo.
Con queste riflessioni siamo giunti alla terza radice del «corpo di Cristo» nella concezione paolina; l’idea del rapporto sponsale o — se vogliamo esprimerci in termini neutrali — la filosofia biblica dell’amore, che è inseparabile dalla teologia eucaristica. Questa filosofia dell’amore si presenta subito al principio della sacra Scrittura, a conclusione del racconto della creazione, allorché ad Adamo viene attribuita la parola profetica: «Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne» (Gn 2,24). Una carne, vale a dire: un’unica nuova esistenza. Anche questa idea del divenire una sola carne nell’unione di anima e corpo dell’uomo e della donna viene ripresa nella prima lettera ai Corinzi da Paolo, il quale precisa che essa si avvera nella comunione: «Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito» (1Cor 6,17). Anche qui la parola «spirito» non dev’essere intesa secondo la sensibilità linguistica moderna, ma dobbiamo leggerla nell’accezione paolina; in tal caso non è così lontana dal «corpo» nel significato. Essa vuole indicare una sola esistenza spirituale con colui che nella risurrezione è divenuto «Spirito» dallo Spirito Santo ed è rimasto corpo nell’apertura dello Spirito Santo. Ciò che poco fa è stato sviluppato a partire dall’immagine del nutrimento, diviene ora più trasparente e comprensibile a partire da quella dell’amore; nel sacramento come atto dell’amore avviene questa fusione di due soggetti che superano la loro divisione e divengono una cosa sola. Il mistero eucaristico, proprio nell’applicazione metaforica dell’idea sponsale, rimane il nucleo del concetto di Chiesa e della sua definizione mediante la formula «corpo di Cristo».
Ma ora appare in primo piano un nuovo e più importante aspetto, che potrebbe essere dimenticato in una teologia sacramentarla di corto respiro, ed è che la Chiesa è corpo di Cristo nel modo in cui la moglie insieme al marito diviene un solo corpo e una sola carne. In altre parole: essa è corpo non secondo una identità indifferenziata, ma in virtù dell’atto pneumatico-reale dell’amore che unisce gli sposi. Detto ancora con altri termini: Cristo e la Chiesa sono corpo nel senso in cui marito e moglie sono una sola carne, così che pur nella loro inscindibile unione fisico-spirituale restano tuttavia non mescolati e non confusi. La Chiesa non diventa semplicemente Cristo, essa rimane la serva che nel suo amore egli innalza a sua sposa che cerca il suo volto in questa fine dei tempi. Ma in questo modo sul fondamento dell’indicativo che si annuncia nelle parole «sposa» e «carne», appare anche l’imperativo dell’esistenza cristiana. Diviene perciò evidente il carattere dinamico del sacramento, che non è una realtà fisica predeterminata, ma qualcosa che si realizza a livello personale. Proprio il mistero d’amore come mistero sponsale manifesta l’immensità del nostro compito e la possibilità di caduta nella Chiesa. Sempre di nuovo, attraverso l’amore unificante, essa deve divenire ciò che essa è, e sottrarsi alla tentazione di rifiutare la propria vocazione per cadere nell’infedeltà di un’arbitraria autonomia. Diviene evidente il carattere relazionale e pneumatologico dell’idea di corpo di Cristo e della concezione sponsale, e la ragione per cui la Chiesa non è mai giunta a perfezione ma ha sempre bisogno di rinnovamento. Essa è sempre in cammino verso l’unione con Cristo: ciò che comporta anche la sua propria, interiore unità che diviene, viceversa, tanto più fragile, quanto più si allontana da questo rapporto fondamentale.