Discorso di Ratzinger per il 60° anniversario dello sbarco alleato in Normandia
ROMA, giovedì, 14 luglio 2005 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato in Normandia dall’allora Cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 4 giugno 2004 in occasione delle celebrazioni per il 60° anniversario dello sbarco alleato.
Quando, il 5 giugno 1944, iniziò lo sbarco delle truppe alleate nella Francia occupata dalla Wermacht, l’evento rappresentò per il mondo intero, compresa una gran parte dei tedeschi, un segnale di speranza: la speranza che in Europa presto sarebbero arrivate la pace e la libertà.
Che cos’era accaduto? Un criminale con i suoi accoliti era riuscito a impadronirsi del potere in Germania. Sotto il dominio del Partito, il diritto e l’ingiustizia si erano intricati tra loro in maniera pressoché indissolubile, tanto da travasarsi spesso l’uno nell’altra e viceversa. Questo perché un regime diretto da un criminale esercitava anche le funzioni classiche dello Stato e dei suoi ordinamenti, così che aveva facoltà, in un certo senso, di esigere di diritto l’obbedienza dei cittadini e il loro rispetto nei confronti dell’autorità dello Stato (Rm 12, 1 e seg.) ma nello stesso tempo utilizzava gli strumenti del diritto come mezzi per i suoi scopi criminali.
Lo stesso Stato di diritto, che in parte continuava a funzionare nelle sue forme abituali all’interno della vita quotidiana, era diventato una potenza che distruggeva il diritto: la perversione degli ordinamenti, che dovevano servire la giustizia e contemporaneamente consolidavano e rendevano impenetrabile il dominio dell’iniquità, si traduceva in un dominio esteso e profondo della menzogna, tale da oscurare le coscienze.
Al servizio di questo dominio della menzogna stava un regime di paura, nel quale nessuno poteva fidarsi dell’altro perché tutti in qualche modo dovevano proteggersi sotto la maschera della menzogna. Così fu di fatto necessario che il mondo intero intervenisse a spezzare il cerchio dell’azione criminale, perché fossero ristabiliti la libertà e il diritto. Oggi noi siamo grati al fatto che questo sia avvenuto, e a esser grati non sono soltanto i Paesi occupati dalle truppe tedesche. Noi stessi, i tedeschi, siamo grati perché, con l’aiuto di quell’impegno, abbiamo recuperato la libertà e il diritto.
Se mai si è verificato nella storia un bellum justum è qui che lo troviamo, nell’impegno degli Alleati, perché il loro intervento operava nei suoi esiti anche per il bene di coloro contro il cui Paese era condotta la guerra. Questa constatazione mi pare importante perché mostra, sulla base di un evento storico, l’insostenibilità di un pacifismo assoluto. Il che non ci esenta in alcun modo dal porci con molto rigore la domanda se oggi sia ancora possibile, e a quali condizioni, qualcosa di simile a una guerra giusta, vale a dire un intervento militare, posto al servizio della pace e guidato dai suoi criteri morali, contro i regimi ingiusti.
Soprattutto, si spera che quel che abbiamo fin qui detto aiuti a comprendere meglio che la pace e il diritto, la pace e la giustizia sono inseparabilmente interconnessi. Quando il diritto è distrutto, quando l’ingiustizia prende il potere, la pace è sempre minacciata ed è già, almeno in parte, compromessa.
Ex Jugoslavia e Ruanda: l’arsenale dell’inimicizia
In Europa, a partire dalla fine delle ostilità, nel maggio 1945, ci è stato dato di vivere un periodo di pace lungo come non mai in tutto il corso della storia del continente. Questo in gran parte per merito della prima generazione di politici che hanno operato nel dopoguerra Churchill, Adenauer, Schumann, De Gasperi.
A loro dobbiamo ancor oggi gratitudine, e dobbiamo essere grati che a guidare in maniera determinante la loro politica non fu un’idea di rivalsa, o di vendetta, o di umiliazione dei vinti ma il dovere di garantire a tutti un diritto; che in luogo della concorrenza fu introdotta la collaborazione, lo scambio di doni offerti e accettati, la mutua conoscenza e l’amicizia nel cuore di una diversità nella quale ciascuna nazione conserva la sua identità e la conserva nella comune responsabilità nei confronti del diritto, in luogo della precedente perversione del diritto.
Il centro motore di quella politica di pace fu il legame fra l’agire politico e la morale. Il discrimine interno a qualsiasi politica è costituito dai valori morali che noi non inventiamo: essi esistono e sono gli stessi per tutti gli uomini. Diciamolo apertamente: quegli uomini politici hanno fondato la loro idea morale dello Stato, della pace e della responsabilità sulla loro fede cristiana, che aveva superato la prova dell’illuminismo e si era ampiamente purificata nel confronto con la distorsione del diritto e della morale operata dal Partito.
Essi non volevano costruire uno Stato confessionale bensì uno Stato che prendesse forma attraverso l’etica. A ciò si aggiunge in verità il fatto che l’Europa era divisa da una frontiera che non attraversava soltanto il nostro continente bensì il mondo intero. Una grande parte dell’Europa centrale e dell’Europa orientale si trovava sotto il dominio di un’ideologia che passava attraverso il Partito e sottometteva lo Stato al Partito, trasformandolo esso stesso in partito.
Anche qui ne derivava un dominio della menzogna. Dopo il crollo di queste dittature, sono emersi con chiarezza i disastri economici, ideologici e spirituali da esse generati. Nei Balcani si è arrivati a conflitti armati nei quali senza alcun dubbio tutto il peso storico del passato produceva per parte sua ulteriori esplosioni di violenza. Ma sottolineare il carattere criminale di quei regimi ed essere felici che siano stati rovesciati non ci esime dal chiederci perché, alla maggior parte dei popoli africani e asiatici, a quei Paesi che erano detti “non allineati”, il regime dell’Est appariva più morale e più realizzabile come modello rispetto all’ordinamento politico e giuridico dell’Occidente. E’ un sintomo, questo, di alcune deficienze nella nostra struttura, deficienze sulle quali dobbiamo riflettere.
Se è vero che l’Europa ha conosciuto dopo il 1945 un periodo di pace, a parte l’eccezione costituita dai conflitti nei Balcani, tuttavia la situazione del mondo nel suo insieme è stata tutt’altro che pacifica. Dalla Corea al Vietnam, all’India, al Pakistan, dal Bangladesh all’Algeria, al Congo, al Biafra e alla Nigeria fino agli antagonismi del Sudan, del Ruanda e del Burundi, dell’Etiopia, della Somalia, del Mozambico, dell’Angola, della Liberia, fino all’Afghanistan e alla Cecenia, sotto i nostri occhi si dispiega un arco ampio e sanguinoso di conflitti bellici ai quali vanno aggiunti i combattimenti in Terra santa e in Iraq.
Non c’è modo qui di precisare più in profondità la natura di ciascuna di queste guerre le cui ferite continuano a sanguinare. Ma vorrei chiarire un po’ meglio due fenomeni in qualche modo nuovi, nei quali prende evidenza la minaccia specifica del nostro tempo, e dunque anche i compiti specifici di una ricerca della pace.
Il primo fenomeno consiste nel fatto che l’ordine giuridico sembra esplodere, e con esso la capacità di coabitazione tra comunità differenti. Un esempio tipico di tracollo della forza del diritto e di conseguente trionfo del caos e dell’anarchia mi sembra essere evidente in Somalia, ma anche la Liberia offre un esempio di come una società si disgreghi dall’interno quando l’autorità dello Stato non è in grado di presentarsi come istanza credibile di pace e di libertà e ciascuno è indotto a difendere il suo diritto da sé e con la forza.
Abbiamo assistito a qualcosa di simile anche in Europa, in seguito alla deflagrazione dello Stato jugoslavo unitario. Popolazioni che, nonostante le forti tensioni interne, per generazioni hanno vissuto insieme pacificamente si sono improvvisamente levate le une contro le altre con una crudeltà inaudita. Si è trattato di un crollo spirituale: le barriere protettive preesistenti non hanno retto al crearsi di una nuova situazione e l’arsenale di inimicizia e di violenza che era annidato nel profondo delle anime, trattenuto fino a quel momento dalla forza del diritto e dalla storia comune, è esploso senza freni. Come è stato possibile? E come è stato possibile che, improvvisamente, in Ruanda, la coabitazione tra hutu e tutsi precipitasse in un’ostilità sanguinosa da ambo le parti?
Le cause di questo crollo del diritto e della capacità di riconciliazione sono certamente molteplici. Possiamo evocarne diverse: il cinismo dell’ideologia aveva oscurato le coscienze, le promesse di quell’ideologia giustificavano ogni mezzo apparentemente idoneo a realizzarle e così avevano abolito la nozione stessa del diritto, quando non la distinzione tra bene e male.
Accanto al cinismo delle ideologie, e spesso in stretta connessione, opera poi il cinismo degli interessi e dei grandi mercati, lo sfruttamento senza limiti delle risorse della terra. Anche così, in nome del profitto, il bene viene messo da parte e il potere sostituisce il diritto. Anche così la forza dell’ethos si dissolve dall’interno, con la conseguenza finale che lo stesso profitto ne risulta distrutto.
E’ a questo punto che un grande compito si impone ai cristiani della nostra epoca: noi dobbiamo per primi imparare a volerci riconciliare gli uni con gli altri e a fare di tutto perché sia la coscienza a dominare, invece di lasciarsi schiacciare dall’ideologia e dall’interesse.
Nei Balcani soprattutto (ma lo stesso vale per l’Irlanda) il compito dell’autentico ecumenismo dovrebbe consistere nel ricercare insieme la pace di Cristo, nell’offrirla gli uni agli altri e anche nel considerare la capacità di fare la pace come un autentico criterio di verità.
La nuova guerra mondiale: il terrorismo
L’altro fenomeno che oggi sommamente ci opprime è il terrorismo. E’ diventato col tempo una sorta di nuova guerra mondiale: una guerra senza un fronte fisso, che può colpire ovunque e non conosce distinzione tra combattenti e popolazione civile, tra colpevoli e innocenti.
Dato che il terrorismo, ma anche la criminalità organizzata ordinaria – la cui rete si rafforza e si estende ogni giorno di più – possono trovare l’accesso alle armi nucleari e a quelle biologiche, il pericolo che ci minaccia è smisurato: finché questo potenziale distruttivo era sotto il controllo esclusivo delle grandi potenze si poteva sempre sperare che la ragione e la consapevolezza della minaccia che il loro uso rappresentava per la popolazione e per lo Stato ne escludessero l’utilizzo. In effetti, nonostante tutte le tensioni che hanno caratterizzato i rapporti tra l’Est e l’Ovest, una guerra su larga scala grazie a Dio ci è stata risparmiata.
Ma le organizzazioni terroriste e quelle criminali non hanno niente a che vedere con quel tipo di ragione, dato che uno dei pilastri del terrore poggia sulla disponibilità all’autodistruzione, un’autodistruzione trasfigurata in martirio e tradotta in promessa.
Che cosa possiamo e dobbiamo fare in questa situazione? Prima di tutto è bene soffermarsi su alcune verità fondamentali. Non è possibile venire a capo del terrore, cioè della forza opposta al diritto e separata dalla morale, con il solo mezzo della forza.
Certamente la difesa del diritto può e deve, in alcune circostanze, far ricorso a una forza commisurata. Un pacifismo assoluto, che neghi al diritto l’uso di qualunque mezzo coercitivo, si risolverebbe in una capitolazione davanti all’iniquità, ne sanzionerebbe la presa del potere e abbandonerebbe il mondo al diktat della violenza. Ma per evitare che la forza del diritto si trasformi essa stessa in iniquità, è necessario sottometterla a criteri rigorosi e riconoscibili come tali da parte di tutti.
Essa deve interrogarsi sulle cause del terrore, il quale spesso trova la sua scaturigine in una situazione di ingiustizia alla quale non vengono opposte misure efficaci. Soprattutto è importante in queste situazioni rinnovare costantemente un’offerta di perdono, al fine di spezzare la spirale della violenza.
Là dove, infatti, viene applicata senza quartiere la regola dell’ “occhio per occhio”, non c’è via d’uscita dalla violenza. Sono necessari gesti d’umanità che, rompendo con la violenza, cerchino nell’altro l’uomo e lo richiamino alla sua umanità, anche dove ciò appaia a prima vista come una perdita di tempo.
E’ urgente l’avvento di un vero ius gentium libero da egemonie preponderanti e capace di interventi adeguati: solo così apparirà chiaro che in gioco è la protezione del diritto comune, del diritto di tutti, anche di coloro che stanno, come si suol dire, dall’altra parte della barricata.
Nella Seconda guerra mondiale è stato il verificarsi di questa condizione a risultare convincente e a portare a una vera pace tra le forze antagoniste. Non si operò, infatti, per il rafforzamento di un diritto particolare ma per il ristabilimento della libertà e del vero diritto, per tutti, anche se indubbiamente non si riuscì a impedire la nascita di nuove strutture egemoniche.
Ma nell’attuale scontro tra le grandi democrazie e il terrore di matrice islamica entrano in gioco questioni le cui radici sono ancor più profonde. Sembra di assistere oggi allo scontro tra due grandi sistemi culturali i quali sono caratterizzati in verità da forme molto diverse di potenza e di orientamento morale: l’Occidente e l’Islam.
E tuttavia, che cos’è l’Occidente? E che cos’è l’Islam? Entrambi sono mondi polimorfi, e sono mondi anche interagenti. In questo senso è dunque un errore opporre globalmente Occidente e Islam. C’è chi tuttavia tende ad approfondire ulteriormente questa opposizione, interpretandola come scontro tra la ragione illuminata e una forma di religione fondamentalista e fanatica. Si tratterebbe dunque di abbattere prima di tutto il fondamentalismo in tutte le sue forme e di promuovere la vittoria della ragione per lasciare campo libero a forme illuminate di religione.
Il fanatismo non è solo quello religioso
E’ vero che, in questo caso, il rapporto tra la ragione e la religione è di un’importanza decisiva, che la ricerca di un giusto rapporto è il fulcro dei nostri sforzi in materia di pace. Parafrasando un’affermazione di Hans Kung, direi che nessuna pace può esserci nel mondo senza l’autentica pace tra ragione e fede, perché senza la pace tra la ragione e la religione le sorgenti della morale e del diritto si esauriscono.
Per chiarire il senso di questa affermazione vorrei formulare il medesimo pensiero in chiave negativa: esistono le patologie della religione – sono sotto i nostri occhi ed esistono le patologie della ragione anch’esse ben visibili. Entrambe le patologie costituiscono pericoli mortali per la pace e, oserei dire, per l’umanità intera.
Guardiamo le cose più da vicino: Dio, o la divinità, possono essere trasformati nell’assolutizzazione di una determinata potenza, di un determinato interesse. Se l’immagine di Dio diventa talmente faziosa da identificare l’assolutezza di Dio con una comunità particolare o con certe sue aree di interesse, ciò distrugge il diritto e la morale: il bene, in questo quadro, è ciò che sta al servizio della mia potenza, e la differenza tra bene e male svanisce.
La morale e il diritto diventano di parte. E tutto questo peggiora ulteriormente quando la volontà di impegnarsi per fini particolaristici si carica di tutto il peso del fanatismo religioso, e diventa così totalmente cieca e brutale. Assistiamo a qualcosa del genere nel caso dei terroristi e della loro ideologia del martirio, un’ideologia che per la verità in certi casi particolari può essere semplicemente un’espressione di disperazione di fronte all’ingiustizia del mondo.
Del resto anche fra noi, nelle sette presenti nel mondo occidentale, troviamo esempi di un irrazionalismo e di una deviazione della dimensione religiosa che mostrano come possa diventare pericolosa una religione quando perde il suo centro d’orientamento.
Ma esiste anche la patologia della ragione interamente separata da Dio. L’abbiamo vista nelle ideologie totalitarie che avevano negato ogni legame con Dio e intendevano così costruire l’uomo nuovo, il mondo nuovo. Hitler merita indubbiamente la qualifica di irrazionalista. I grandi profeti e i realizzatori del marxismo non sono meno segnati dalla pretesa di costruire il mondo animati unicamente dalla ragione. Forse l’espressione più drammatica di questa patologia della ragione si incarna in Pol Pot: è in lui che si è manifestata con un’evidenza totale la crudeltà di una simile “ricostruzione” del mondo.
Ma è lo stesso sviluppo spirituale dell’Occidente a tendere sempre di più verso patologie distruttive della ragione. In fondo la bomba atomica – con la quale la ragione, invece di essere forza costruttiva, intendeva rafforzarsi attraverso la capacità di distruzione – non era già un superamento dei limiti?
E quando, attraverso la ricerca del codice genetico, la ragione si impossessa delle radici della vita, essa tende sempre più a non vedere nell’uomo un dono del Creatore (o della “natura”) e a trasformarlo in un prodotto. L’uomo viene “fatto”, e ciò che si può fare si può anche disfare. La dignità umana scompare. E dove mai troveranno più un fondamento i diritti dell’uomo? Come potrà ancora sussistere il rispetto per l’uomo anche quando è vinto, debole, sofferente, handicappato? In questo quadro la nozione di ragione si appiattisce sempre di più. E’ ovvio che, se la realtà è unicamente il prodotto di processi meccanici, come tale non comporta nessuna morale.
Il bene in sé, che stava tanto a cuore ancora a Kant, non esiste più. Ed è proprio su queste basi che hanno agito di fatto le dittature ideologiche: in una determinata situazione può darsi che sia bene uccidere degli innocenti, se questo serve alla costruzione del futuro mondo della ragione. In ogni modo la loro dignità assoluta non esiste più.
Sull’etica un invito ai non credenti
La ragione malata e la religione manipolata finiscono con l’incontrarsi nel medesimo esito. Ogni riconoscimento di valori ultimativi, ogni asserzione di verità da parte della ragione finisce con l’apparire alla ragione malata come fondamentalismo. E non resta altro che la dissoluzione, la decostruzione, come da tempo ci insegna Jacques Derrida, che ha “decostruito” l’ospitalità, la democrazia, lo Stato e infine anche la nozione di terrorismo, per ritrovarsi poi atterrito dagli avvenimenti dell’11 settembre. Una ragione che sappia riconoscere solo se stessa e ciò che è empiricamente certo si paralizza e si autodistrugge.
Se l’Illuminismo era alla ricerca di fondamenti della morale validi “etsi Deus non daretur”, oggi noi dobbiamo invitare i nostri amici agnostici ad aprirsi a una morale “si Deus daretur”. Il filosofo polacco Leszek Kolakowski, partendo dall’esperienza di una società agnostica atea, ha mostrato in maniera convincente che, in assenza di un punto di riferimento assoluto, l’agire dell’uomo si perde nell’indeterminatezza ed è ineluttabilmente in balia delle forze del male.
Come cristiani siamo oggi chiamati non certo a porre limiti alla ragione o ad opporci ad essa, ma a rifiutarci di ridurla a una ragione del fare e a lottare a sostegno della sua capacità di cogliere il bene e il buono, il sacro e il santo. Solo una ragione che si mantenga aperta a Dio una ragione che non esilia la morale nella sfera soggettiva e non la riduce a puro calcolo – può evitare la manipolazione della nozione di Dio e le malattie della religione, e può offrire qualche terapia.
E’ qui che si evidenzia la grande sfida che i cristiani d’oggi dovrebbero accettare. Il loro compito, il nostro compito consiste nel condurre la ragione a funzionare integralmente, non solo nel campo della tecnica e dello sviluppo materiale del mondo ma anche e prima di tutto in quanto facoltà di verità, promovendone la capacità di riconoscere il bene, il quale è condizione del diritto e con ciò anche presupposto della pace nel mondo.
E’ specifico compito nostro, di cristiani del tempo presente, quello di inserire la nozione di Dio nella lotta per la difesa dell’uomo. Un elemento della tradizione cristiana vorrei ancora ricordare, di fondamentale importanza nelle avversità del nostro tempo. La fede cristiana ha soppresso, seguendo il cammino di Cristo, l’idea della teocrazia politica.
Per dirla in termini moderni, essa ha fondato la secolarità dello Stato nel quale i cristiani coabitano, nella libertà, con gli esponenti di altre convinzioni. Una coabitazione fondata peraltro sulla comune responsabilità morale, insita nella natura dell’uomo e nella natura della giustizia.
La fede cristiana fa distinzione tra questa forma secolare e il Regno di Dio, che come realtà politica non esiste e non può esistere in quanto tale su questa terra, ma vive nella fede, nella speranza e nella carità e deve trasformare il mondo dall’interno. Le tentazioni di Gesù hanno come tema di fondo proprio questa distinzione, il rifiuto della teocrazia politica, la relatività dello Stato e il diritto della ragione, e anche la libertà di scelta, garantita a tutti gli uomini.
In questo senso, lo Stato laico è un esito della decisione cristiana fondamentale, anche se è stata necessaria una lunga lotta per comprenderne tutte le conseguenze. Questo carattere secolare, “laico” dello Stato include nella sua essenza quell’equilibrio tra ragione e religione che ho cercato di illustrare in precedenza.
Ed è per questa sua natura che si oppone anche a quel laicismo ideologico che vorrebbe stabilire qualcosa come uno “Stato della pura ragione”, uno Stato separato dalle sue radici storiche e perciò incapace di riconoscere i fondamenti morali che alla ragione si impongono. Altro non resta allo Stato, su queste basi, che il positivismo del principio di maggioranza e la decadenza del diritto, con la conseguenza che quest’ultimo risulta essere retto in fin dei conti da criteri statistici.
Se gli Stati d’Occidente si caratterizzassero integralmente in questo senso, alla lunga non potrebbero resistere alla pressione delle ideologie e delle teocrazie politiche. Uno Stato, anche se laico, ha il diritto e persino l’obbligo di trovare sostegno nelle radici morali che lo hanno segnato nel suo sorgere; esso può e deve riconoscere quei valori fondamentali in assenza dei quali non sarebbe diventato quello che è e non potrebbe sopravvivere. Uno Stato della ragione astratta, antistorica, non potrebbe sussistere.
Sul piano pratico tutto ciò significa che noi cristiani dobbiamo sforzarci, insieme ai nostri concittadini tutti, di dare al diritto e alla giustizia un fondamento morale che si ispiri alle idee cristiane fondamentali, qualunque sia il modo in cui ciascuno ne interpreta le origini e le armonizza con l’insieme della sua vita. Ma per far sì che simili convinzioni razionali comuni siano possibili, è necessario che noi stessi viviamo con energia e purezza la nostra eredità, in modo che diventi visibile ed efficace e eserciti la sua forza interiore di persuasione nell’insieme della società.
Vorrei concludere con le parole del filosofo di Kiel, Kurt Hübner, che illustrano limpidamente questo intento: “Potremo evitare il conflitto con le culture che oggi ci sono ostili solo se riusciremo a smentire il veemente rimprovero di aver dimenticato Dio, tornando ad essere pienamente coscienti del radicamento profondo della nostra cultura nel cristianesimo. Certamente questo non basterà a cancellare il risentimento prodotto dalla superiorità occidentale che in molti campi connota la vita del nostro tempo, ma potrà contribuire in misura significativa a spegnere il fuoco religioso che, a ben vedere, si alimenta naturalmente”. E’ un fatto: se non siamo fedeli alla memoria del Dio della Bibbia, del Dio che si è fatto prossimo in Gesù Cristo, non troveremo la strada della pace.
[La traduzione dal francese, non rivista dall’autore, è stata pubblicata su “Vita e Pensiero” n. 5 (settembre-ottobre) 2004]