Il Magistero dei Padri nell’Enciclica “Fides et ratio”

Mercoledì pomeriggio, 11 novembre, alla presenza del Santo Padre, il Cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha presentato l’Enciclica “Fides et ratio” nel corso del solenne Atto Accademico al quale hanno partecipato Cardinali, Arcivescovi, Vescovi legati all’Urbaniana, professori ed alunni.
Questo il testo del discorso:

1. Introduzione
“Non sembri fuori luogo il mio richiamo forte e incisivo, perché la fede e la filosofia recuperino l’unità profonda che le rende capaci di essere coerenti con la loro natura nel rispetto della reciproca autonomia” (FR n. 48). Con tale deciso pronunciamento il Santo Padre conclude il IV capitolo dell’Enciclica Fides et Ratio, un capitolo assolutamente centrale nell’economia del suo discorso.
La frase or ora citata si conclude con una parola che riflette tutto lo slancio intellettuale e spirituale del documento: “Alla parresia della fede deve corrispondere l’audacia della ragione”.


2. La parresia della fede
Ma che cos’è questa “parresia” della fede? La parola “parresia” è passata dal linguaggio politico dell’antichità greca al Nuovo Testamento, ricevendo qui un significato nuovo e approfondito. Nella grecità classica, la parresia è ciò che contraddistingue l’uomo libero, il cittadino della polis. Egli può e deve parlare in pubblico. Le donne, gli schiavi e gli stranieri non godono nella polis greca dei diritti politici, non hanno neppure il diritto di parresia, e perciò non possono parlare in pubblico. L’uomo libero ha la libertà di parlare, perché parla nella responsabilità della libertà.
La lettera agli Efesini (3, 19) esprime la consapevolezza che i cristiani non sono “più né stranieri né ospiti”, ma “cittadini” (sym-polítai): essi possiedono una nuova e più grande parresia, una parresia universale, perché sono “cittadini del cielo” (A Diogneto, 5). La loro polis è il cosmo intero. Così il racconto degli Atti degli Apostoli si chiude con un’icona significativa. Paolo a Roma, prigioniero nella casa da lui presa in affitto, insegnava metà parresías “le cose riguardanti il Signore Gesù” (Atti 28,31). In un clima in cui l’odierno cattolicesimo rischia di essere troppo acquiescente nei confronti della cultura comune dei valori e dei diritti dell’uomo, considerati spesso come mutevoli “regole di un gioco sociale”, il Santo Padre rivendica alla fede il diritto e il dovere di parlare forte e chiaro, di annunciare Cristo come verità ultima e definitiva dell’uomo e del mondo: con parresia, appunto.


3. L’audacia della ragione
D’altra parte, il Papa è convinto che la parresia della fede – ben lungi dal mortificare le facoltà razionali – essa sola è in grado di dare alla ragione umana la fiducia che merita e l’audacia di attingere alla Verità. Viceversa, l’Enciclica lamenta che, sulla scia di varie trasformazioni culturali, “alcuni filosofi, abbandonando la ricerca della verità per se stessa, hanno assunto come loro unico scopo il raggiungimento della certezza soggettiva o dell’utilità pratica. Conseguenza di ciò”, prosegue Giovanni Paolo II, “è stato l’offuscamento della vera dignità della ragione, non più messa nella condizione di conoscere il vero e di ricercare l’assoluto” (n. 47).
In altri termini, “la ragione, privata dell’apporto della rivelazione, ha percorso sentieri laterali che rischiano di farle perdere di vista la sua meta finale” (n. 48). Al contrario, illuminata dalla fede, la ragione è in grado di “pensare in grande”, e di tendere con audacia alla conquista della verità, cui lo spirito anela. Così, per dirla ancora con le parole dell’Enciclica, “fede e ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità”.
Di fatto, l’oggetto primario e unitario dell’Enciclica è la verità, e all’uomo vengono proposti gli strumenti perché in maniera adeguata possa giungere alla sua contemplazione. Se si vuole, il documento costituisce un inno alla ragione perché possa recuperare in pienezza il ruolo che ha svolto nei momenti più significativi della storia del pensiero.


4. Teologia e filosofia: unità e autonomia


Così l’Enciclica “è costretta”, per così dire, ad andare al cuore del dramma, o della “crisi”, della cultura moderna: la separazione, o la reciproca indifferenza, tra fede e ragione, fra teologia e filosofia. In fondo, se il Santo Padre ha scritto questa Enciclica, è proprio nel tentativo di comporre questo divorzio. Giova ricordare, al riguardo, una lucida analisi di Paul Gilbert, al termine della sua Introduzione alla teologia medievale. “Se si volesse rappresentare schematicamente la storia della teologia del Medioevo”, scrive il nostro autore, “si potrebbe proporre ciò: inizialmente la filosofia e la teologia sono unite, alla fine sono separate. Al principio, la filosofia e la teologia formano insieme un’unica sapienza: gli autori come sant’Agostino sono in grado tuttavia di distinguerle formalmente l’una dall’altra”. Poi, con l’avvento del trivio e specialmente della grammatica, la filosofia diventa una tecnica, mentre la teologia rappresenta l’espressione di un intento globalmente spirituale. Il problema diventa allora “quello del legame tra una tecnica linguistica soggetta alla discussione, e dunque alla verifica, e un’esperienza spirituale molto meno percettibile”. Conclude Gilbert: “Il Medioevo è così passato dall’unità del pensiero e della preghiera alla loro reciproca indifferenza” (P. Gilbert, Introduzione alla teologia medievale, Casale Monferrato 1992, p. 172).
Ebbene, è proprio dentro a questo quadro – complesso e gravido di contraddizioni – che vengono a disegnarsi le figure della teologia e della filosofia nei secoli successivi, fino all’età moderna e ai nostri giorni. L’Enciclica affronta tale situazione a più riprese, con profondità e originalità di argomenti, soprattutto nel suo capitolo centrale. Ciò che emerge in maniera chiara è la convinzione espressa, secondo cui la separazione tra fede e ragione, come fra teologia e filosofia, ha impoverito entrambe, cosicché esse “sono divenute deboli l’una di fronte all’altra” (n. 48). Più che insistere su distinzioni e approfondimenti epistemologici caratteristici di un contributo “scientifico”, quale non può e non deve essere un’Enciclica, il Papa propone una soluzione originale del problema, affidandola evidentemente all’approfondimento degli specialisti. Egli scrive al n. 73: “Il rapporto che deve opportunamente instaurarsi tra la teologia e la filosofia sarà all’insegna della circolarità. Per la teologia, punto di partenza e fonte originaria dovrà essere sempre la parola di Dio rivelata nella storia, mentre obiettivo finale non potrà che essere l’intelligenza di essa via via approfondita nel susseguirsi delle generazioni. Poiché, d’altra parte, la parola di Dio è Verità, alla sua migliore comprensione non potrà non giovare la ricerca umana della verità, ossia il filosofare, sviluppato nel rispetto delle leggi che gli sono proprie. Non si tratta semplicemente di utilizzare, nel discorso teologico, l’uno o l’altro concetto o frammento di un impianto filosofico; decisivo è che la ragione del credente eserciti le sue capacità di riflessione nella ricerca del vero all’interno di un movimento che, partendo dalla parola di Dio, si sforza di raggiungere una migliore comprensione di essa. È chiaro, peraltro, che, muovendosi entro questi due poli – parola di Dio e migliore sua conoscenza -, la ragione è come avvertita, e in qualche modo guidata, ad evitare sentieri che la porterebbero fuori dalla Verità rivelata e, in definitiva, fuori dalla verità pura e semplice; essa viene anzi stimolata ad esplorare vie che da sola non avrebbe nemmeno sospettato di poter percorrere. Da questo rapporto di circolarità con la parola di Dio la filosofia esce arricchita, perché la ragione scopre nuovi e insospettati orizzonti”.
E qui il Papa menziona, a riprova della fecondità di una simile impostazione, una lunga serie di nomi, dai Padri della Chiesa, “tra i quali bisogna citare almeno i nomi di san Gregorio Nazianzeno e sant’Agostino”, ai grandi Dottori medievali, tra i quali emerge la “triade di sant’Anselmo, san Bonaventura e san Tommaso d’Aquino. Il fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio”, aggiunge Giovanni Paolo II, “si manifesta anche nella ricerca coraggiosa condotta da pensatori più recenti, tra i quali mi piace menzionare, per l’ambito occidentale, personalità come John Henry Newman, Antonio Rosmini, Jacques Maritain, Étienne Gilson, Edith Stein e, per quello orientale, studiosi della statura di Vladimir S. Solov’ev, Pavel A. Florenskij, Petr J. Caadaev, Vladimir N. Lossky”. E conclude: “C’è da sperare che questa grande tradizione filosofico-teologica trovi oggi e nel futuro i suoi continuatori e i suoi cultori per il bene della Chiesa e dell’umanità” (n. 74).
Di fronte a questo schizzo suggestivo della storia del pensiero filosofico-teologico, sorge spontanea una domanda: quali sono le profonde radici a cui fa riferimento il magistero dell’Enciclica?


5. L’itinerario dei primi secoli cristiani: la Chiesa delle origini e le correnti filosofiche del suo tempo


La risposta è la seguente. Il Documento dedica uno spazio fuori del comune – rispetto a ciò che capita di solito nelle Encicliche – ad illustrare l’itinerario dei primi secoli cristiani, nel caso specifico l’esperienza della Chiesa antica dinanzi alle correnti filosofiche del suo tempo. Il riferimento va soprattutto ai nn. 38-41, sui quali svolgo ora alcune osservazioni mirate. Si può dimostrare che, fin dalle origini, gli scrittori cristiani hanno accolto i metodi dell’analisi razionale, comuni ai filosofi del loro tempo. A ragione dunque l’Enciclica definisce, sulle orme di Origene, “ingiusta e pretestuosa” la critica del pagano Celso, che accusava i cristiani di essere gente “illetterata e rozza” (n. 38 e nota 31). Ma per leggere e approfondire il IV capitolo dell’Enciclica (così importante, come già abbiamo visto, nello svolgimento del discorso magisteriale), conviene esplicitare un’altra domanda, in verità alquanto impegnativa: al di là (o “a monte”) di questa utilizzazione dell’indagine razionale, quale atteggiamento assunsero i cristiani dei primi secoli di fronte alla filosofia del loro tempo? Fin dai primi tempi si ebbero, in seno al cristianesimo, due atteggiamenti diversi. Uno – di apparente, totale rifiuto – ha la sua espressione più evidente in alcuni rappresentanti del cristianesimo africano e di quello siriaco, cioè nelle due aree estreme del mondo ellenizzato. Sono note le esclamazioni di Tertulliano, citate anche nell’Enciclica: “Che cosa c’è di simile tra un filosofo e un cristiano, tra un discepolo della Grecia e un discepolo del cielo?”. E ancora: “Che cosa c’è in comune tra Atene e Gerusalemme? Che cosa tra l’Accademia e la Chiesa?” (n. 41 e nota 40). In realtà l’Apologetico di Tertulliano, indirizzato alle supreme autorità dell’impero intorno al 200, rivela un atteggiamento assai complesso nei confronti della filosofia e delle istituzioni di Roma. Per questo motivo la critica odierna registra l’ambiguità, o l’enigma, di Tertulliano in tutti gli ámbiti (in quello filosofico, anzitutto, ma anche in quello politico-istituzionale e in quello linguistico-letterario) del suo dialogo con le tradizioni pagane. L’altro atteggiamento invece fu di grande apertura, di dialogo critico e costruttivo con la filosofia greca. È l’atteggiamento assunto da Giustino e sviluppato dagli Alessandrini, soprattutto da Clemente (Giovanni Paolo II lo illustra nel n. 38 dell’Enciclica, adducendo anche opportune citazioni: vedi le note 32-37). Qui non solo la filosofia greca non è rifiutata, ma è vista come propedeutica alla fede: è “il testamento dei Greci” – per usare le parole di Clemente (Stromati 6,8,67,1) -, allo stesso modo in cui il testamento antico appartiene agli Ebrei. Sarebbe errato, però, ritenere che la vera linea di demarcazione tra il “sì” e il “no” alla filosofia sia quella geografica e ambientale, che divide il cristianesimo latino e siriaco da quello alessandrino. Essa, in verità, è assai più intima e generale, e passa attraverso ogni singolo pensatore cristiano, perché in ogni autore convivono come due anime: quella cristiana, piena di riserve verso una filosofia ancora permeata di paganesimo, e quella greca, che ne è invece soggiogata.
Nel complesso tuttavia – salva la pluralità degli approcci e nonostante alcune intransigenze, spesso di marca ereticale – la Chiesa prenicena si muove nella direzione di un accordo tra filosofia e annuncio evangelico. “I cristiani sono i filosofi di oggi e i filosofi erano i cristiani di altri tempi”, giunge a dire Minucio Felice alle soglie del III secolo (Ottavio 20, 1). Si realizza così, tra la fine del II e la prima metà del III secolo, una ulteriore occasione di incontro tra la ragione e la fede.
Clemente Alessandrino riprende da pari suo la questione, e la definisce in questi termini: “La fede è una conoscenza (solo) elementare e per compendio delle cose necessarie. Invece la gnosi” (con questo termine Clemente allude alla “fede che pensa”) “è dimostrazione ferma e sicura di ciò che si è ricevuto per fede… e conduce a un indefettibile possesso intellettuale” (Stromati 7, 10,57,3).
Con Clemente entriamo in una fase nuova del rapporto fede-ragione e del “fare teologia”. Ma è soprattutto con Origene che si vede nascere una teologia che articola e sviluppa le affermazioni chiare del simbolo, una teologia che forgia una dottrina coerente e che non si limita più a narrare e ad esplicitare le tappe dell’economia divina. Il metodo e la dottrina di Origene marcheranno la storia della teologia; e anche se oggi si tende a sfumare il giudizio – ieri prevalente – di compiuta organicità della costruzione dottrinale origeniana, questo non toglie nulla al fatto che Origene, raccogliendo la sfida gnostica, ha aperto una via nuova alla teologia. Ben a ragione il Papa scrive che tra i primi esempi “di assunzione critica del pensiero filosofico da parte dei pensatori cristiani…quello di Origene è certamente significativo” (n. 39). L’Alessandrino propone infatti un itinerario spirituale in cui fede e ragione, conoscenza, contemplazione ed esperienza mistica di Dio, lungi dal divaricarsi, si compenetrano fra loro e vengono proposte continuamente a ogni cristiano, perché cammini sulla via della perfezione.


6. Il magistero dei Padri sul rapporto fede-ragione


“Uno itinere non potest pervenire ad tam grande secretum”. Con questo aforisma il Retore pagano Simmaco esprime nella celebre controversia che lo vide in contrasto con sant’Ambrogio (Relazione 10) il relativismo della sua religione politeista, opponendo all’unicità della via, che è Cristo, l’apparente apertura universale e tollerante delle tradizioni romane. A questa opposizione sbagliata tra uniformità cristiana ed apertura pagana risponde l’Enciclica nella direzione dei Padri, per i quali “le vie per raggiungere la verità rimangono molteplici” (n. 38). In realtà non esiste una teologia monolitica dei Padri, ma una molteplicità di approcci e “scuole”, come riflesso della ricchezza inesauribile della verità, del mistero di Cristo che è la verità. Ciò che i Padri invece non misero mai in dubbio è che “ciascuna di queste vie può essere percorsa, purché conduca alla meta finale, ossia alla rivelazione di Gesù Cristo” (n. 38). E proprio qui risiede l’originale, perenne magistero dei Padri circa il rapporto fede ragione. “Essi”, spiega Giovanni Paolo II in modo lucido e conciso, “accolsero in pieno la ragione aperta all’assoluto e in essa innestarono la ricchezza proveniente dalla Rivelazione. L’incontro non fu solo a livello di culture, delle quali l’una succube forse del fascino dell’altra; esso avvenne nell’intimo degli animi e fu incontro tra la creatura e il suo Creatore. Oltrepassando il fine stesso verso cui inconsapevolmente tendeva in forza della sua natura, la ragione poté raggiungere il sommo bene e la somma verità nella persona del Verbo incarnato. Dinanzi alle filosofie, i Padri non ebbero tuttavia timore di riconoscere tanto gli elementi
comuni quanto le diversità che esse presentavano rispetto alla Rivelazione. La coscienza delle convergenze non offuscava il riconoscimento delle differenze” (n. 41).


7. Conclusione
Così, alle soglie del Duemila, i nostri Padri continuano a segnare con decisione il cammino di chi intende “dare ragione” della sua fede in Cristo. Essi possono servire d’esempio anche ai teologi del nostro tempo, ai quali il Papa raccomanda di “recuperare ed evidenziare al meglio la dimensione metafisica della verità, per entrare in un dialogo critico ed esigente tanto con il pensiero filosofico contemporaneo quanto con tutta la tradizione filosofica”. Il legame intimo tra la sapienza teologica e il sapere filosofico è, infatti, “una delle ricchezze più originali della tradizione cristiana nell’approfondimento della verità rivelata” (n. 105). Poco oltre, al n. 107, il discorso si rivolge a tutti gli uomini di buona volontà, manifestando così quell’intenzione missionaria, che anima l’Enciclica intera: “A tutti”, e qui il tono è quello di una solenne consegna, “a tutti chiedo di guardare in profondità all’uomo, che Cristo ha salvato nel mistero del suo amore, e alla sua costante ricerca di verità e di senso. Diversi sistemi filosofici, illudendolo, lo hanno convinto che egli è assoluto padrone di sé, che può decidere autonomamente del proprio destino e del proprio futuro confidando solo in se stesso e sulle proprie forze. La grandezza dell’uomo non potrà mai essere questa. Determinante per la sua realizzazione sarà soltanto la scelta di inserirsi nella verità, costruendo la propria abitazione all’ombra della Sapienza e abitando in essa. Solo in questo orizzonte veritativo comprenderà il pieno esplicitarsi della sua libertà e la sua chiamata all’amore e alla conoscenza di Dio come attuazione suprema di sé”. Sono parole che in modo particolare impegnano al discernimento le Università Ecclesiastiche, che intendono essere luogo di ricerca e di dialogo tra la scienza di Dio (cioè la teologia) e le scienze dell’uomo, al quale va annunciato il Vangelo. Così, prima di ogni altra esegesi e di più approfonditi commenti, la nostra reazione – di fronte a un documento che va diritto al cuore di un dibattito ineludibile – non può che essere quella dell’accoglienza attenta e grata, come davanti a un dono ormai da tempo sperato. Un dono tanto più prezioso, in quanto non solo gratifica generosamente i suoi destinatari, ma al tempo stesso li impegna a “trafficare il talento” ricevuto – cioè ad approfondire il messaggio del Papa, a coglierne i risvolti, e soprattutto a renderlo operativo. È quanto si deve augurare alle Università e agli Istituti di studio ecclesiastici. È quanto auguro a questa Pontificia Università, a cominciare dal presente anno accademico e pastorale.