Proponiamo ampi stralci della relazione del Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede al convegno di Lugano di Joseph Ratzinger
Tolleranza e fede nella verità rivelata sono concetti che si oppongono? O, in altre parole, si possono conciliare fede cristiana e modernità? Se la tolleranza è uno dei fondamenti dell’epoca moderna, affermare di aver trovato la verità non è forse una presunzione superata che deve essere respinta, se si vuole spezzare la spirale della violenza che attraversa la storia delle religioni? Questa domanda si pone oggi in maniera sempre più drammatica nell’incontro tra il cristianesimo e il mondo, e si diffonde sempre più la convinzione che la rinuncia da parte della fede cristiana alla pretesa di verità sia la condizione fondamentale per ottenere una nuova pace mondiale, la condizione fondamentale per la riconciliazione tra cristianesimo e modernità. (…)
Può forse essere utile (…) accennare a una variante del rifiuto della verità nella religione, che proviene non dalla storia, bensì dal pensiero filosofico – le tesi di Wittgenstein riguardo al nostro tema. G. Elisabeth M. Anscombe ha riassunto l’opinione del suo maestro al riguardo in due tesi: «1. Non c’è nulla di comparabile all’essere vero di una religione. Si allude a questo quando si dice: “Questo enunciato religioso non è uguale a un enunciato della scienza”. 2. La fede religiosa può essere paragonata all’innamoramento di un essere umano, piuttosto che alla sua convinzione che qualcosa sia vero oppure falso». Coerente con questa logica, Wittgenstein ha annotato in uno dei suoi numerosi taccuini che per la religione cristiana non avrebbe alcuna importanza se Cristo abbia effettivamente compiuto in un certo modo una delle opere a lui attribuite o addirittura se egli sia semplicemente esistito.
Ciò corrisponde alla tesi di Bultmann: credere in un Dio, creatore del cielo e della terra non significa credere che Dio abbia realmente creato cielo e terra, ma unicamente considerare se stessi come creature grazie a ciò vivere una vita più sensata. Nel frattempo idee simili si sono diffuse anche nella teologia cattolica e si possono percepire più o meno distintamente anche nella predicazione. I fedeli se ne rendono conto e si chiedono se non siano stati presi per il naso. Vivere in una bella finzione può andar bene a un teorico delle religioni; per l’uomo che chiede con che cosa e per che cosa vivere o morire non è sufficiente. L’addio alla pretesa di verità, che di per sé sarebbe l’addio alla fede cristiana in quanto tale, viene qui addolcito, concedendo alla fede – intesa come una sorta di innamoramento con le sue piacevoli consolazioni soggettive – di continuare a esistere. La fede viene trasferita sul piano del gioco, mentre sinora essa riguardava il piano della vita in quanto tale. La fede come gioco è qualcosa di radicalmente diverso dalla fede creduta e vissuta. Non indica una strada, è soltanto un ornamento. Non ci aiuta né a vivere né a morire; tutt’al più fornisce un po’ di svago, un po’ di piacevole apparenza – ma per l’appunto solo apparenza, e questo non basta per vivere e per morire. (…)
La tragedia antica è interpretazione dell’essere a partire dall’esperienza di un mondo contraddittorio, che inevitabilmente genera colpa e fallimento. Nel suo sistema – l’idea che si sviluppa in passi dialettici – in fondo Hegel ha ripreso questo modo di vedere il mondo, e ha poi cercato di rappresentare la sua riconciliazione nella sintesi omnicomprensiva come speranza per il futuro e così come dissolvimento del tragico. L’orientamento escatologico cristiano è qui fuso con la visione antica dell’unità dell’essere e sembra ormai “raccogliere” in sé i due, spiegando così ogni cosa. Ma la dialettica resta crudele e la riconciliazione solo apparente. Nel momento in cui Marx traduce la speculazione hegeliana in un progetto concreto per la costruzione della storia, tale crudeltà si rende visibile, e noi siamo testimoni di tutta la sua crudeltà.
Perché è inevitabile che la dialettica del progresso, messa in pratica, esiga le sue vittime: affinché i progressi addotti dalla Rivoluzione Francese potessero essere realizzati, era necessario accettare le sue vittime – così si dice. E affinché il Marxismo potesse produrre la società riconciliata erano per l’appunto necessarie le ecatombi di vittime umane, non c’è altro modo: qui la dialettica mitologica è stata tradotta in fatti. L’uomo diventa materiale per il gioco del progresso; come singolo egli non conta nulla; poiché è solo materiale per il crudele Dio Deus sive natura. La teoria dell’evoluzione ci insegna la stessa cosa: che i progressi, appunto, costano. E gli esperimenti odierni sull’uomo, che viene trasformato in una “banca di organi”, ci mostrano l’applicazione molto pratica di queste idee – in cui l’uomo stesso prende in mano l’ulteriore evoluzione. (…)
La questione della verità è inevitabile. Essa è indispensabile all’uomo e riguarda proprio le decisioni ultime della sua esistenza: esiste Dio? Esiste la verità? Esiste il bene? La “distinzione mosaica” è anche la distinzione socratica, potremmo dire. Qui si rendono visibili la motivazione interiore e la necessità interiore dell’incontro storico tra la Bibbia e la cultura greca. Ciò che le unisce è appunto la domanda della verità e del bene in quanto tale che pongono alle religioni, ossia, come noi ora potremmo chiamarla, la distinzione mosaico-socratica. Questo incontro ha preso avvio ben prima dell’inizio della sintesi tra fede biblica e pensiero greco di cui si preoccuparono i Padri della Chiesa. Esso si realizza già all’interno dell’Antico Testamento, soprattutto nella letteratura sapienziale e nel memorabile intervento-evento della traduzione in greco dell’Antico Testamento, che fu un momento di incontro interculturale di estrema portata. Certo, nel mondo antico l’esito della questione socratica rimane aperto, ed è diverso in Platone e in Aristotele. In questo senso rimane nel mondo dello spirito greco un’attesa rispetto alla quale l’annuncio cristiano è apparso come l’agognata risposta. Questa attesa aperta, che nel pensiero greco era come un atteggiamento di ricerca, è uno dei motivi principali del successo della missione cristiana. (…)
A questo punto, nel bacino del Mediterraneo, più tardi nel mondo arabo e anche in parti dell’Asia, il monoteismo si presenta come la riconciliazione tra ragione e religione: la divinità alla quale giunge la ragione è identica al Dio che si mostra nella Rivelazione. Rivelazione e ragione si corrispondono. Esiste la “vera religione”; la questione della verità e la questione del divino si sono riconciliate. L’antichità ci mostra, però, anche un altro possibile esito, che oggi è tornato attuale. Da un lato c’è la reinterpretazione cristiana di Platone, la fusione dell’attesa greca e della sua domanda sulla verità, nella quale l’orientamento greco viene accolto e contemporaneamente ridefinito alla radice. Dall’altro lato c’è però anche il tardo platonismo di Porfirio, di Proclo e altri che diventa lo strumento per il rifiuto della pretesa cristiana e per una nuova giustificazione del politeismo – l’altra faccia del pensiero platonico.
Qui proprio la posizione scettica diventa giustificazione del politeismo: siccome non si può riconoscere il divino, lo si può adorare unicamente in multiformi manifestazioni, nelle quali si esprimono il mistero del cosmo e la sua molteplicità, che non può essere ridotta a nessun nome. Nella tarda Antichità questo tentativo di restaurazione del politeismo, giustificata dal punto di vista filosofico e quindi apparentemente razionale, no ha potuto durare. Essa è rimasta una costruzione accademica, dalla quale non scaturiva la forza di speranza e di verità che era necessaria. (…)
Anche per gli odierni tentativi di offrire una via del ritorno all’Egitto, una liberazione dal cristianesimo e dalla sua dottrina del peccato non potrà avvenire diversamente. Perché anche in questo caso si rimane nella finzione che, sì, può essere pensata accademicamente, ma non basta per vivere. Certo, la fuga dal Dio unico e dalla sua pretesa continuerà. E lo scetticismo per il quale oggi sembrano esserci ragioni più forti che nell’Antichità, continuerà. Il criterio stabilito dalla scienza moderna per raggiungere la certezza non può corrispondere alla pretesa di verità della fede cristiana, perché la forma della verifica, qui, è di tutt’altra natura rispetto all’ambito dello sperimentabile; infatti il tipo di esperimento richiesto – garantire con la vita – è di tutt’altra natura. I santi, i quali hanno superato l’esperimento, possono fungere da garanti della sua verità, ma la possibilità di sottrarsi a quest’evenienza rimane. Così, indubbiamente, si continueranno a cercare altre soluzioni, le si cercheranno nella forma di unioni mistiche, per le quali ci sono e continueranno a esserci istruzioni e tecniche. (…)
Il Dio unico è un “Dio geloso”, come lo chiama l’Antico Testamento. Egli smaschera gli dei perché nella sua luce si vede che gli “dei” non sono Dio, che il plurale di Dio è di per sé una menzogna. La menzogna è sempre non libertà e non è un caso, soprattutto però non è falso, che nel ricordo di Israele l’Egitto appare come una casa di schiavi, come un luogo di non-libertà. Solo la verità rende liberi. Dove l’utilità viene anteposta alla verità – come accade nel caso della doppia verità, di cui abbiamo parlato in precedenza – l’uomo diventa schiavo dell’utilitarismo e di coloro che possono decidere quale sia l’utile. (…)
I temi del vero e del bene non sono separabili. Platone aveva ragione identificando il punto più alto del divino con l’idea del bene. Inversamente se non possiamo conoscere la verità riguardo a Dio, allora anche la verità riguardo a ciò che è bene e a ciò che è male resta inaccessibile. In tal caso non esiste il bene e il male; rimane solo il calcolo delle conseguenze: l’ethos viene sostituito dal calcolo. Detto ancora più chiaramente: le tre domande sulla verità, sul bene, su Dio sono un’unica domanda.
E se a essa non c’è risposta, allora brancoliamo nel buio riguardo alle cose essenziali della nostra vita. Allora l’esistenza umana è veramente “tragica” – allora certamente capiamo anche cosa debba significare redenzione. Il concetto biblico di Dio riconosce Dio come il Bene, come il Buono (cfr. Mc 10,18). Questo concetto di Dio raggiunge il suo culmine nell’affermazione giovannea: «Dio è amore» (1Gv 4,8). Verità e amore sono identici. Quest’affermazione – se ne raccoglie tutta la sua portata – è la più grande garanzia della tolleranza; di un rapporto con la verità, la cui unica arma è essa stessa e quindi l’amore.
(C) Tracce N. 4 > aprile 2002