Proponiamo alcuni brani di una conferenza del Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, in Messico, nel maggio scorso. «Come mai la fede ha ancora una sua possibilità di successo? Direi perché essa trova corrispondenza nella natura dell’uomo»
a cura di LUIGI NEGRI
Ne proponiamo di seguito alcuni brani.
La crisi della teologia della liberazione
La caduta dei sistemi di governo di ispirazione marxista nell’est europeo trasformò questa teologia, fondata su una prassi liberatrice di tipo politico, in una specie di crepuscolo degli dei: proprio dove l’ideologia marxista della liberazione era stata adottata in maniera sistematica, si era instaurata una mancanza totale di libertà, i cui orrori stavano inesorabilmente davanti agli occhi di tutti. Quando la politica vuole essere liberatrice, promette troppo. Quando vuole sostituirsi a Dio nel suo agire, diventa non divina ma demoniaca. (…) Il venir meno dell’unico sistema che proponeva una soluzione dei problemi umani su base scientifica poteva lasciare spazio solo al nichilismo, o per lo meno ad un relativismo totale.
Il relativismo come filosofia dominante
Il relativismo è diventato perciò effettivamente il problema fondamentale della fede dei nostri giorni. Esso non si esprime solo come una forma di rassegnazione di fronte alla verità irraggiungibile, ma si definisce anche positivamente ricorrendo alle idee di tolleranza, conoscenza dialogica e libertà, che erano state coartate dalla concezione di una verità universalmente valida. Il relativismo si presenta inoltre come la base filosofica della democrazia, la quale si fonderebbe appunto sul fatto che nessuno può pretendere di conoscere la strada giusta; la democrazia deriverebbe cioè dal fatto che tutte le strade si riconoscono reciprocamente come tentativi parziali di raggiungere ciò che è migliore e ricercano nel dialogo una qualche comunione, alla quale arreca il proprio contributo anche la conoscenza, che però in ultima analisi non si può ricondurre ad una forma comune. Un sistema di libertà dovrebbe essere per sua natura un sistema di posizioni relative che comunicano tra loro, che dipendono inoltre da varie combinazioni storiche e restano aperte a nuovi sviluppi. (…)
La cosiddetta teologia pluralista delle religioni si era già affermata gradualmente fin dagli anni Cinquanta, ma solo oggi ha assunto un’importanza fondamentale per la coscienza cristiana. Per la rilevanza della sua problematica e per la sua presenza nei più diversi settori culturali essa assume ora il posto che nel decennio scorso spettava alla teologia della liberazione; del resto spesso si riallaccia a quest’ultima e tenta di presentarne un volto più nuovo ed attuale. (…)
Il relativismo in teologia: l’abolizione della cristologia
Per confermare culturalmente l’abolizione dell’assoluta originalità dell’evento di Cristo si opera un richiamo alle religioni asiatiche.
L’identificazione di una singola figura storica, Gesù di Nazaret, con la “realtà” stessa, ossia con il Dio vivente, viene respinta come una ricaduta nel mito; Gesù viene espressamente relativizzato come uno dei tanti geni religiosi. Ciò che è assoluto, oppure Colui che è l’assoluto, non può darsi nella storia, dove si hanno solo modelli, solo figure ideali che ci rinviano al totalmente altro, il quale non si può afferrare come tale nella storia. È chiaro che anche la Chiesa, il dogma, i sacramenti non possono più avere il valore di necessità assoluta. Attribuire a questi mezzi finiti un carattere assoluto, considerarli anzi come un incontro reale con la verità, valida per tutti, del Dio che si rivela, significherebbe collocare su un piano assoluto ciò che è particolare e travisare perciò l’infinità del Dio totalmente altro.
In base a questa concezione, che ha assunto oggi una posizione rilevante, anche al di là delle teorie di Hick, il ritenere che vi sia realmente una verità, una verità vincolante e valida nella storia stessa, nella figura di Gesù Cristo e della fede della Chiesa, viene ritenuto un fondamentalismo che si presenta come un autentico attentato contro lo spirito moderno e come una minaccia multiforme contro il suo bene principale, la tolleranza e la libertà. Anche il concetto di dialogo, che nella tradizione platonica e cristiana aveva acquisito una funzione significativa, assume ora un senso diverso. Diventa addirittura l’essenza del Credo relativista e l’opposto della “conversione” e della missione: in una concezione relativista dialogo significa porre su uno stesso piano la propria posizione o la propria fede e le convinzioni degli altri, e in linea di principio non ritenerla più vera della posizione dell’altro. (…)
Il New Age
Vi è però anche una reazione espressamente antirazionalista all’esperienza che «tutto è relativo», e che si riassume nell’etichetta polivalente del New Age. Qui la via di uscita dal dilemma della relatività non viene individuata in un nuovo incontro di un Io con un Tu o con un Noi, ma nel superamento del soggetto, nel ritorno estatico nel processo cosmico. Come già la gnosi antica, questa via ritiene di essere in sintonia con tutto ciò che la scienza insegna e pretende inoltre di valorizzare le conoscenze scientifiche di ogni genere (biologia, psicologia, sociologia, fisica). (…)
Questo rinnovarsi delle religioni e dei culti precristiani, che oggi viene praticato in molte maniere, trova diverse spiegazioni. Se non vi è una verità comune, che ha valore proprio perché è vera, il cristianesimo diventa solo un prodotto importato dall’esterno, un imperialismo spirituale, che bisogna scuotersi di dosso al pari di quello politico. Se nei sacramenti non si realizza un incontro di tutti gli uomini con l’unico Dio vivente, essi diventano dei riti privi di contenuto, che non ci dicono e non ci danno nulla, o tutt’al più ci fanno percepire il numinoso che è presente in tutte le religioni. (…) Ma soprattutto, se la «sobria ebbrezza» del mistero cristiano non ci può rendere ubriachi di Dio, bisogna allora evocare l’ebbrezza reale delle estasi efficaci, la cui passione ci eccita e ci rende dei almeno per un attimo, ci fa sentire per un momento il gusto dell’infinito e ci fa dimenticare la miseria del finito. Quanto più si rende manifesta l’inutilità degli assolutismi politici, tanto più diventa forte l’attrattiva dell’irrazionalità, la rinuncia alla realtà del quotidiano.
Il pragmatismo nella vita quotidiana della Chiesa
Oltre a queste soluzioni radicali e al grande pragmatismo delle teologie della liberazione vi è anche però il grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa, nel quale in apparenza ogni cosa procede normalmente, ma in realtà la fede si logora e decade nella meschinità. Penso qui a due fenomeni, ai quali guardo con preoccupazione. Il primo riguarda il tentativo, che si manifesta a diversi livelli, di estendere il principio della maggioranza alla fede e ai costumi e quindi di “democratizzare” decisamente la Chiesa. Ciò che non è gradito alla maggioranza non può essere vincolante, così sembra. Ma di quale maggioranza si tratta, in realtà? Domani sarà diversa da oggi? Una fede che siamo in grado di stabilire noi non è una vera fede. E una minoranza non può lasciarsi imporre una fede da una maggioranza. La fede e la sua pratica ci provengono dal Signore attraverso la Chiesa e l’esercizio dei sacramenti, altrimenti non esistono. (…)
L’altro punto, su cui voglio richiamare l’attenzione, riguarda la liturgia. Le varie fasi della riforma liturgica hanno fatto sorgere l’idea che la liturgia possa venir mutata a piacere. Se c’è qualcosa che non si può cambiare, questo riguarderebbe tutt’al più le parole della consacrazione, mentre tutto il resto lo si potrebbe far anche diversamente. Ne deriva una conseguenza logica: se questo lo può fare un’autorità centrale, perché non anche le istituzioni locali? E se le istituzioni locali, perché allora non anche la stessa comunità? (…)
L’esegesi
Esegesi razionalistica e filosofia positivistica vengono utilizzate per svuotare il contenuto obiettivo e il fascino umano della fede
(…) come mai la teologia classica si è mostrata così impreparata di fronte a questi eventi? Dove si trovano i punti deboli che l’hanno resa così inefficace?
Desidero solo rilevare due punti, che emergono dalle posizioni di Hick e Knitter. Questi ultimi si appellano all’esegesi per giustificare la loro distruzione della cristologia: l’esegesi avrebbe provato che Gesù non si è ritenuto il Figlio di Dio, il Dio incarnato, ma che solo in seguito i suoi seguaci lo avrebbero reso tale. (…)
Se so a priori (parlando come Kant) che Gesù non può essere Dio, che i miracoli, i misteri e i mezzi della grazia sono tre forme di illusione, allora non posso neppure ricavare dai testi sacri un dato di fatto che tale non può essere. Posso solo cercare di vedere come si è giunti a simili affermazioni, come esse si sono formate gradualmente. (…)
Perciò l’esegesi storico-critica non mi trasfonde la Bibbia nell’oggi, nella mia vita attuale. (…)
Per sua natura essa non parla dell’oggi, di me, ma di ciò che era ieri, di un’altra cosa. Perciò essa non può mai mostrarmi il Cristo di oggi, di domani e dell’eternità, ma soltanto, se vuole restare fedele a se stessa, del Cristo di ieri. (…)
Il problema dell’esegesi, come abbiamo visto, coincide ampiamente con il problema della filosofia. Le difficoltà della filosofia, ossia le difficoltà in cui si è dibattuta la ragione orientata in senso positivista, sono diventate le difficoltà della nostra fede. Quest’ultima non può divenire libera, se la ragione stessa non si apre nuovamente. Se rimane chiusa la porta della conoscenza metafisica, se restano invalicabili i confini posti da Kant alla conoscenza umana, la fede è destinata ad atrofizzarsi: le manca il respiro. Certo, il tentativo di volersi tirare fuori dalla palude dell’incertezza, per così dire prendendosi per i capelli, attraverso una ragione strettamente autonoma, che non vuole sapere nulla in fatto di fede, non può avere successo. La ragione umana infatti non è per nulla autonoma. Essa vive sempre in particolari contesti storici. Le contingenze le offuscano la vista (come possiamo constatare); perciò ha bisogno anche di venir soccorsa sul piano storico, per poter superare le barriere che le provengono dalla storia. Ritengo che il razionalismo neoscolastico sia fallito nel suo tentativo di voler ricostruire i Preambula Fidei con una ragione del tutto indipendente dalla fede, con una certezza puramente razionale; tutti gli altri tentativi, che procedono su questa medesima strada, otterranno alla fine gli stessi risultati. Su questo punto aveva ragione Karl Barth, nel rifiutare la filosofia come fondamento della fede, indipendentemente da quest’ultima: la nostra fede si fonderebbe allora, in fondo, su mutevoli teorie filosofiche. Ma Barth sbagliava nel definire perciò stesso la fede come un semplice paradosso, che può sussistere solo contro la ragione e in totale indipendenza da essa. Una delle funzioni della fede, e non tra le più irrilevanti, è quella di offrire un risanamento alla ragione come ragione, di non usarle violenza, di non rimanerle estranea, ma di ricondurla nuovamente a se stessa. Lo strumento storico della fede può liberare nuovamente la ragione come tale, in modo che quest’ultima – messa sulla buona strada dalla fede – possa vedere da sé. Dobbiamo sforzarci di ottenere un simile dialogo nuovo tra fede e filosofia, perché esse hanno bisogno l’una dell’altra. La ragione non si risana senza la fede, ma la fede senza la ragione non diventa umana.
Il nostro compito oggi
Se si guarda all’attuale situazione religiosa, di cui ho cercato di presentare qualche elemento illustrativo, c’è addirittura da restare meravigliati che nonostante tutto si continui ancora a credere cristianamente, non solo nelle forme sostitutive di Hick, Knitter e altri, ma con la fede piena e gioiosa del Nuovo Testamento, della Chiesa di tutti i tempi. Come mai la fede ha ancora una sua possibilità di successo? Direi perché essa trova corrispondenza nella natura dell’uomo. L’uomo infatti possiede una dimensione più ampia di quanto Kant e le varie filosofie postkantiane gli abbiano attribuito. Kant stesso con i suoi postulati lo ha dovuto ammettere in qualche modo. Nell’uomo vi è un inestinguibile desiderio di infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente; solo il Dio che si è reso finito, per infrangere la nostra finitezza e condurla nella dimensione della sua infinità, è in grado di venire incontro alle esigenze del nostro essere. Il nostro compito è quello di servire a lui con animo umile, con tutta la forza del nostro cuore.
(da: L’Osservatore Romano, 1 novembre 1996)