«DI FRONTE AGLI ANGELI VOGLIO CANTARTI».
LA TRADIZIONE DI RATISBONA
E LA RIFORMA LITURGICA
J. Ratzinger
Estratto da: “CANTATE AL SIGNORE UN CANTO NUOVO”
1996, JACA BOOK
Tratto dal sito: http://digilander.libero.it/gregduomocremona/di_fronte_agli_angeli.htm
1. Liturgia terrena e celeste: la visione del Padre
Dopo un indimenticabile volo in elicottero sui monti dell’Alto Adige nell’autunno del 1992 potei visitare il monastero di Marienberg im Vinschgau, che là in quei meravigliosi paesaggi venne fondato a lode di Dio e così alla sua maniera accoglie l’invito del canto di lode dei tre fanciulli:
«Voi monti e colline, lodate il Signore! » (Dan 3,75).
Il vero e proprio tesoro di questo monastero è la cripta, consacrata il 13 luglio 1160, con i suoi meravigliosi affreschi, che frattanto sono stati quasi completamente restaurati (1). Queste immagini – come tutta l’arte medievale – non avevano un significato puramente estetico. Vogliono essere essi stessi una liturgia, una parte della grande liturgia della creazione e del mondo redento, per partecipare alla quale questo monastero venne innalzato. Il programma di immagini corrisponde perciò alla comune comprensione di fondo della liturgia, quale nella Chiesa intera (Oriente ed Occidente) era ancora viva. Rivela forti influssi bizantini, ma nel suo nucleo è semplicemente biblica, e d’altra parte è essenzialmente determinata dalla tradizione del monachesimo, più concretamente dalla Regola di san Benedetto.
Il vero e proprio punto di prospettiva è perciò la «Maiestas Domini», il Signore risorto e innalzato, che però al tempo stesso è visto come colui che ritorna, che viene già adesso nell’Eucaristia. La Chiesa che celebra l’Eucaristia gli va incontro, la liturgia è proprio l’atto di questo andare mcontro a Lui che viene. Nella liturgia Egli anticipa già adesso questa sua venuta che ci aveva promesso.
La liturgia è parusia anticipata, è l’irrompere del «già» nel nostro «non ancora», come Giovanni lo ha rappresentato nel racconto delle nozze di Cana: l’ora del Signore non è ancora giunta, non tutto quello che deve avvenire è già adempiuto, ma alla preghiera di Maria – la Chiesa – egli ci dà già adesso il nuovo vino, ci dona già in anticipo il frutto della sua ora.
Il Signore risorto non è solo. Egli viene visto nelle immagini della liturgia celeste donateci dall’Apocalisse: circondato dai quattro esseri viventi, circondato soprattutto da una grande schiera di angeli che cantano. Il loro canto è espressione di gioia che non sarà tolta, il risolversi dell’esistenza nel giubilo della libertà che ha trovato il suo compimento.
Il monachesimo fu inteso sui dagli inizi come vita alla maniera degli angeli: la maniera degli angeli è l’adorazione. Entrare nella forma di vita degli angeli significa dare alla vita la forma di un’adorazione, nella misura in cui è possibile alla debolezza degli uomini (2).
Così la liturgia è il centro del monachesimo, ma il monachesimo non fa altro che mettere in luce per tutti ciò di cui si tratta nell’esistenza cristiana, anzi nell’esistenza umana in quanto tale.
A guardare a questi affreschi i monaci di Marienberg hanno pensato certamente anche al capitolo diciannovesimo della Regola di san Benedetto: la disciplina del salmodiare, ove il padre del monachesimo ricorda fra l’altro il primo versetto del Salmo 137 (138): «Di fronte agli angeli ti voglio cantare». Benedetto prosegue: «Riflettiamo dunque su come si debba essere e stare davanti alla divinità e agli angeli, e stiamo allora nel nostro canto in modo tale che il nostro cuore sia all’unisono con le nostre voci». «Mens nostra concordet voci nostrae». Dunque le cose non stanno così, che l’uomo si inventa qualcosa e poi lo canta, bensì che il canto gli proviene dagli angeli, ed egli deve innalzare il suo cuore affinché stia in armonia con questa tonalità che gli giunge dall’alto.
Importante è però soprattutto una cosa: la liturgia non è una cosa che fanno i monaci. Essa esiste già prima di essi. Essa è l’entrare nella liturgia celeste già da sempre in atto. La liturgia terrena è liturgia solo per il fatto che si inserisce in ciò che già c’è, in ciò che è più grande.
Così diventa pienamente chiaro il senso degli affreschi. Attraverso di essi la vera e propria realtà, la liturgia celeste, getta il suo sguardo all’interno di questo nostro spazio. Essa è per così dire la finestra attraverso cui i monaci protendono lo sguardo al di fuori, verso il grande coro, cantare dentro il quale è il nucleo della loro vocazione.
«Di fronte agli angeli ti voglio cantare»: questa unità di misura viene così continuamente posta loro davanti agli occhi.
2. Un riflettore acceso sulla disputa post-conciliare sulla liturgia
Discendiamo da Marienberg e dalle vedute che ci permette, scendiamo a valle nella pianura dell’odierna quotidianità liturgica. Qui il panorama è assai confuso. Harald Schützeichel ha descritto la situazione di oggi come un «già e non ancora», ove certo non ci si vuol riferire più al concetto escatologico concernente il Cristo veniente in un mondo ancora contrassegnato dalla morte e dalle sue pene, ma dove il nuovo, invece, che è «già» presente è ora la riforma liturgica, mentre il vecchio – l’ordinamento tridentino – sarebbe appunto «non ancora» superato (3).
Così anche la domanda: «Dove debbo rivolgermi?» non è più (come era una volta) ricerca del volto del Dio vivente, bensì descrizione della assenza di orientamento nella situazione della musica sacra, risultata dalla realizzazione a metà della riforma liturgica. Qui si è verificato manifestamente un profondo «cambiamento di paradigmi», per usare un termine alla moda. Un abisso divide la storia della Chiesa in due mondi irreconciliabili: quello pre-conciliare e quello post-conciliare. In effetti non c’è nell’opinione pubblica nessun verdetto peggiore che quando a proposito di una decisione ecclesiale, di un testo, di una funzione liturgica o di una persona si può dire che è «pre-conciliare». La cattolicità dovrebbe secondo questi parametri essere stata rinchiusa fino al 1965 dentro una condizione veramente terribile.
Applichiamo tutto ciò al nostro caso pratico. Un maestro di cappella del duomo, che aveva svolto il suo ministero nel duomo di Ratisbona dal 1964 al 1994, si trovò – se le cose stanno così – in una situazione praticamente priva di vie d’uscita. Quando egli iniziò, la Costituzione liturgica del Vaticano II non era ancora stata approvata. Alla sua entrata in servizio egli stava ancora del tutto chiaramente sotto il parametro (eretto con comprensibile orgoglio) della tradizione ratisbonese, detto più precisamente: del «Motu proprio» di Pio X Tra le sollecitudini, emanato il 22 novembre 1903, circa le questioni della musica sacra (4). Questo «Motu proprio» non era stato in nessun’altra parte accolto così gioiosamente (e così illimitatamente preso come parametro), come nel duomo di Ratisbona, il quale con questo atteggiamento divenne certamente esemplare per molte cattedrali e chiese parrocchiali in Germania e anche fuori di essa.
Pio X si era rifatto, con questa riforma della musica sacra, ad una propria esperienza e conoscenza liturgica. Già in seminario egli aveva diretto una scuola corale. Come vescovo di Mantova e come Patriarca di Venezia combatté contro la musica operistica, che allora predominava in Italia. L’insistenza sul corale come la vera musica liturgica era per lui parte di un più grande programma di riforma, in cui si trattava di ridare al culto divino la sua purezza e dignità, di configurarlo in base alla sua interiore pretesa (5). In questa sua preoccupazione egli aveva conosciuto la tradizione di Ratisbona, che fece da padrino del «Motu proprio», senza che per questo fosse stata canonizzata come tale in blocco. In Germania oggi Pio X viene per lo più visto solo come il papa antimodernista. Gianpaolo Romanato ha mostrato chiaramente nella sua biografia critica quanto questo papa proveniente dalla pastorale sia stato un papa riformatore (6).
Per chi rifletta su tutto ciò e osservi le cose un po’ più da vicino, il fossato tra pre-conciliare e post-conciliare apparirà già più stretto. Lo storico aggiungerà un ulteriore dato di conoscenza. La Costituzione liturgica del concilio Vaticano II ha sì posto le fondamenta per la riforma; ma la riforma stessa venne poi strutturata da un comitato post-conciliare e nei suoi concreti dettagli non può venir ricondotta semplicemente al dettato conciliare. Il concilio era un inizio aperto, il cui ampio ambito consentiva parecchie realizzazioni. Se si pensa giustamente a tutto ciò, non si potrà più descrivere l’arco di tensione che si aprì in questi decenni con i termini di tradizione pre-conciliare e riforma post-conciliare, ma piuttosto si parlerà di confronto tra la riforma di Pio x e la riforma avviata dal concilio. Dunque di gradi di riforma e non di un fossato tra due mondi.
Se si allarga ancora ulteriormente lo sguardo si può dire che la storia della liturgia sta sempre nella tensione tra continuità e rinnovamento. Essa cresce all’interno di situazioni sempre nuove, e deve anche sempre nuovamente tornare a ritagliare il presente, che diventa poi passato, affinché l’essenziale riappaia, nuovo e pieno di forza. Essa ha bisogno sia di crescita che di purificazione, e in entrambe della conservazione della sua identità, dello scopo, senza il quale essa perderebbe il suo fondamento di esistere.
Se però le cose stanno così, allora l’alternativa tra forze tradizionali e riforme si rivela inadeguata. Chi crede di poter scegliere solo tra vecchio e nuovo si è già posto in una strada priva di sbocco. La questione è piuttosto: che cos’è la liturgia in base alla sua essenza? Quale parametro pone essa a partire da se stessa?
Solo quando questo è stato chiarito si può ulteriormente chiedere: che cosa deve restare? Cosa può e cosa deve forse diventare diverso?
3. La domanda circa l’essenza della liturgia e circa i parametri della riforma
Alla domanda circa l’essenza della liturgia abbiamo già trovato una prima risposta nell’introduzione a proposito degli affreschi di Marienberg, una risposta che deve ora venire ulteriormente approfondita. In questa preoccupazione ci imbattiamo nuovamente contro una delle alternative che derivano dall’immagine storica dualistica di mondo pre-conciliare e mondo post-conciliare. In base ad essa prima del concilio sarebbe stato soltanto il prete l’incaricato della liturgia, mentre a partire dal concilio lo sarebbe ora la comunità radunata. Quindi – così si deduce – è la comunità come vero soggetto della liturgia a determinare cosa in essa debba accadere (7).
Ora il sacerdote non ha certamente mai avuto il diritto di disporre da sé che cosa si debba fare nella liturgia. La liturgia non era affatto a suo piacimento. Essa lo precedeva come «rito», cioè come forma oggettiva della comune preghiera della Chiesa.
L’alternativa polemica «prete o comunità come incaricati della liturgia?» è senza senso: essa distrugge la comprensione della liturgia, anziché promuoverla, e crea quel falso fossato tra pre-conciliare e post-conciliare, che lacera il grande nesso della vivente storia della fede. Essa si basa su di un appiattimento del pensiero, in cui non emerge più l’essenziale.
Se apriamo il Catechismo della Chiesa Cattolica, troviamo invece in magistrale sinteticità e chiarezza la «summa» delle migliori conoscenze del movimento liturgico e quindi ciò che la grande tradizione conserva di permanentemente valido. Qui veniamo in primo luogo istruiti che liturgia significa «servizio del popoio e per il popolo» (8). Quando la teologia cristiana prese dall’Antico Testamento greco questo termine che si era andato formando nel mondo pagano, essa pensava naturalmente al popolo di Dio, che i cristiani erano diventati per il fatto che Cristo aveva abbattuto il muro divisorio tra ebrei e pagani, per unificare tutti nella pace dell’unico Dio.
«Servizio per il popolo»: essi pensavano che questo popolo non era creato da loro, attraverso la comune derivazione, ma si realizzava solamente in virtù del servizio pasquale di Gesù Cristo, e dunque riposava sul servizio di un altro, e cioè del Figlio.
Il popolo di Dio non esiste semplicemente come esistono i tedeschi, i francesi, gli italiani o altri popoli. Esso sorge sempre di nuovo solo in virtù del servizio del Figlio e per il fatto che egli ci innalza nella comunione di Dio, a cui noi da soli non possiamo arrivare. Conformemente a ciò prosegue il Catechismo: «Nella tradizione cristiana esso (il termine «liturgia») significa che il popolo di Dio partecipa alla ‘opera di Dio’». Il Catechismo cita la Costituzione liturgica del concilio, secondo cui ogni celebrazione liturgica è opera di Cristo, che è il sacerdote, e del suo corpo che è la Chiesa (9).
Così le cose appaiono ora già molto diversamente. La riduzione sociologica, che riesce solo a contrapporre attori umani gli uni agli altri, è spezzata. La liturgia, come abbiamo visto, presuppone il cielo aperto; solo se questo è vero, c’è allora liturgia. Se il cielo non è aperto, ciò che era liturgia si rimpicciolisce, si riduce ad un gioco di ruoli, ad una ricerca (ultimamente priva di interesse) di auto-conferma comunitaria, in cui in fondo non accade nulla.
L’elemento decisivo è dunque il primato della cristologia. La liturgia è opera di Dio, oppure non esiste. Con questo primato di Dio e della sua azione, che viene a cercarci con segni terreni, è data anche l’universalità e l’universale apertura di ogni liturgia, che non può venir afferrata a partire dalla categoria di comunità, ma solamente a partire dalle categorie di popolo di Dio e di corpo di Cristo.
Solamente in questo grande contesto si può allora comprendere giustamente la reciprocità di sacerdote e comunità. Il prete fa e dice nella liturgia ciò che egli in proprio, di suo, non può fare e dire; egli agisce – come diceva la tradizione – «in persona Christi», cioè a partire dal sacramento che garantisce la presenza dell’altro, di Cristo. Egli non sta a sé; egli non è nemmeno il delegato della comunità, che gli avrebbe in un certo senso affidato un ruolo, bensì il suo stare nel sacramento della sequela esprime precisamente il primato di Cristo, che è la condizione di base di ogni liturgia.
Poiché il sacerdote rappresenta questo primato di Cristo, rinvia col suo ministero ogni assemblea al di là di se stessa in direzione del tutto, poiché Cristo è solo uno, e aprendo il cielo Egli è anche Colui che elimina ogni frontiera terrena.
Il Catechismo ha articolato trinitariamente la sua teologia della liturgia. Mi sembra assai importante che si parli della comunità nel capitolo sullo Spirito Santo, con le seguenti parole: «Nella liturgia del Nuovo Patto ogni azione liturgica, specialmente la celebrazione dell’Eucaristia e dei sacramenti, è un incontro tra Cristo e la Chiesa. L’assemblea liturgica (‘la comunità’) riceve la propria unità dalla ‘comunione dello Spirito Santo’, che riunisce i figli di Dio nell’unico Corpo di Cristo. Essa supera le affinità umane, razziali, culturali e sociali. L’assemblea deve prepararsi ad incontrare il suo Signore, essere un ‘popolo ben disposto’». (10)
Bisogna qui ricordare che il termine comunità (Gemeinde) – derivante dalla tradizione protestante – nella maggior parte delle lingue non può venir tradotto. Il suo equivalente nelle lingue latine è «assemblée», assemblea, ove viene già posto un accento un po’ diverso. Con ambedue le espressioni (comunità e assemblea) sono indiscutibilmente evidenziati due importanti dati di fatto: in primo luogo che i partecipanti alla celebrazione liturgica non sono individui senza relazioni gli uni con gli altri, bensì in virtù dell’evento liturgico vengono connessi vicendevolmente fino a costituire una concreta rappresentazione del popolo di Dio; in secondo luogo che essi come popolo di Dio qui radunato sono attivi co-esecutori dell’evento liturgico, a partire dal Signore.
Ma di contro all’odierna ipostatizzazione della comunità ci si deve decisamente difendere. I radunati, come dice con ragione il Catechismo, divengono un’unità solo in forza della comunione dello Spirito Santo, essi non lo sono da se stessi, come una grandezza sociologica chiusa. Se essi però stanno in una unità derivante dallo Spirito Santo, allora è sempre un’unità aperta, il cui superamento dei confini nazionali, culturali e sociali si esprime nella concreta apertura verso quelli che non fanno parte del suo nucleo originario. L’odierno discorrere di comunità presuppone oltremodo un gruppo omogeneo, che possa programmare e condurre avanti azioni in comune. A questa «comunità» si può allora affidare solamente un sacerdote che la conosca e che sia da essa conosciuto.
Con la teologia tutto questo non ha nulla a che fare. Se ad esempio in una grande cattedrale si radunano per la celebrazione festiva delle persone che in termini sociologici non formano alcun gruppo unitario e che ad esempio fanno anche fatica a riuscire a cantare assieme, sono essi allora comunità o non lo sono? Sì, lo sono, poiché il loro comune rivolgersi con fede al Signore e l’andare incontro ad essi del Signore li unisce l’uno all’altro interiormente in maniera molto più profonda di quanto non potrebbe fare una semplice appartenenza sociale reciproca.
Riassumendo si può dire: né il prete di per sé, né la comunità di per sé è il responsabile della liturgia, bensì il Cristo totale, Capo e membra. Il prete, la comunità, i singoli lo sono nella misura in cui sono uniti con Cristo e nella misura in cui lo rappresentano nella comunione di Capo e corpo. In ogni celebrazione liturgica è compartecipe l’intera Chiesa, lo sono cielo e terra, Dio e gli uomini, non solo in termini teorici, ma del tutto reali. Quanto più la celebrazione è animata da questa consapevolezza, da questa esperienza, tanto più concretamente essa realizza il senso della liturgia.
Con queste riflessioni ci siamo apparentemente allontanati dal tema della tradizione di Ratisbona e della riforma post-conciliare, ma solo apparentemente. Era necessario che venisse preso in considerazione questo ampio quadro, poiché in base ad esso si misura ogni riforma, e solo a partire da esso si possono adeguatamente descrivere anche il luogo interno e la maniera corretta della musica sacra.
Possiamo adesso sinteticamente dire quale era la tendenza essenziale della riforma scelta dal concilio. Di contro all’individualismo dell’epoca moderna e al moralismo con esso intrecciato doveva nuovamente venire alla luce la dimensione del mistero, cioè il carattere cosmico della liturgia, che abbraccia cielo e terra. Nella partecipazione al mistero pasquale di Cristo essa oltrepassa tutti i confini di luoghi e tempi, per radunarli poi nell’ora di Cristo, che nella liturgia viene anticipata, conducendo così la storia al suo traguardo (11).
Due ulteriori punti di prospettiva si aggiungono poi nella costituzione liturgica del Vaticano II. Il concetto di mistero è inseparabile nella fede cristiana da quello di Logos. I misteri cristiani – al contrario di tanti culti misterici pagani – sono misteri del Logos. Essi vanno al di là della ragione umana, ma non conducono nell’assenza di forma del fumoso, né della dissoluzione della ragione in un cosmo inteso irrazionalmente, bensì conducono al Logos, cioè alla Ragione creatrice, in cui si fonda il senso di tutte le cose. Di qui deriva la fondamentale semplicità, il legame con la ragione e il carattere di «parola» della liturgia.
A ciò si collega un secondo elemento: il Logos è divenuto carne nella storia. L’orientamento secondo il Logos è perciò per i cristiani sempre anche orientamento all’origine storica della fede, alla parola biblica e al suo sviluppo paradigmatico nella Chiesa dei Padri. Dallo sguardo sul mistero di una liturgia cosmica, la liturgia del Logos, derivò la necessità di rappresentare concretamente e visibilmente il carattere comunitario del culto divino, il suo carattere di azione e la sua natura di «parola». Tutte le istruzioni singole circa la revisione di libri e riti son da leggere a partire di qui.
Se si ha tutto ciò davanti agli occhi, si vede che la tradizione di Ratisbona, come pure il «Motu proprio» di Pio x, malgrado le differenze esteriori mirano intenzionalmenete nella stessa direzione. L’esclusione dell’apparato orchestrale che soprattutto in Italia si era sviluppato in direzione della musica operistica, doveva mettere nuovamente la musica di chiesa interamente a servizio della parola liturgica e al servizio dell’adorazione. La musica di chiesa non doveva più essere uno spettacolo connesso alla liturgia, ma doveva divenire essa stessa liturgia, cioè un entrare a cantare nel coro degli angeli e dei santi.
Così doveva diventar trasparente che la musica liturgica conduce i credenti tutti assieme nella glorificazione di Dio, nella sobria ebbrezza della fede. La sottolineatura del corale gregoriano e della polifonia classica era dunque subordinata sia al carattere misterico della liturgia, sia al suo carattere di Logos, sia al suo legame alla Parola storica. Essa doveva, per così dire, mettere in luce la paradigmaticità dei Padri, che forse talvolta era stata intesa in maniera troppo esclusivistica o troppo storicistica: paradigmaticità, intesa correttamente, significa infatti non esclusione del nuovo, ma indicazione della direzione, che dona l’orientamento in prospettive sempre più ampie. Avanzare nella nuova terra viene qui reso possibile proprio dal fatto che è stata trovata la via giusta.
Solo se si comprende questa essenziale comunanza di volere e di direzione nella riforma di Pio x e in quella conciliare, si possono anche rettamente apprezzare le differenze negli orientamenti pratici.
Viceversa possiamo dire a partire di qui che una maniera di vedere la liturgia che ha smarrito il suo carattere di mistero e la sua dimensione cosmica finisce con l’operare non una riforma, ma una deformazione della liturgia.
4. Fondamento e compito della musica nel culto divino
La domanda circa l’essenza della liturgia e circa i parametri della riforma ci ha ricondotti da sé alla domanda circa il posto della musica nella liturgia. In effetti non si può parlare di liturgia senza parlare anche della musica liturgica. Dove viene a crollare la liturgia, crolla anche la musica sacra, e dove la liturgia viene rettamente intesa e vissuta, là cresce bene anche la buona musica di chiesa.
Abbiamo in precedenza visto che nel Catechismo il concetto di «comunità» (o assemblea) appare per la prima volta laddove si parla dello Spirito Santo come Colui che dà forma alla liturgia. Avevamo detto che così è descritto esattamente il luogo interiore della comunità.
Parimenti non è un caso che nel Catechismo la parola-chiave «cantare» emerga per la prima volta laddove si tratta del carattere cosmico della liturgia, e precisamente in una citazione tratta dalla Costituzione liturgica del Vaticano II: «Nella liturgia terrena noi partecipiamo, pregustandola, a quella celeste, che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini… Con tutte le schiere celesti cantiamo al Signore l’inno di gloria…» (12)
Philipp Harnoncourt ha espresso molto bene lo stesso dato di fatto allorché ha commentato il noto detto di Wittgenstein: «Delle cose di cui non si può parlare bisogna tacere» in questi termini: «Delle cose di cui non si può parlare, si può allora, anzi si deve, cantare e musicare, se non si può tacere» (13). Poco dopo egli aggiunge: «Ebrei e cristiani sono concordi nell’opinione che il loro cantare e musicare rinvia al cielo, o proviene dal cielo, o è suggerito dal cielo… ». (14) In queste frasi sono dati i principii fondamentali della musica liturgica. La fede deriva dall’ascolto della parola di Dio. Dove però la parola di Dio viene tradotta in parola di uomini, rimane un soprappiù di non detto e non dicibile, che ci invita a tacere, ci invita ad un silenzio che alla fine fa diventare l’indicibile un canto e chiama in aiuto anche le voci del cosmo, affinché l’indicibile divenga udibile.
Questo significa che la musica sacra nascendo dalla Parola e dal silenzio percepito in essa, presuppone un sempre nuovo ascolto di tutta la pienezzza del Logos.
Mentre Schützeichel dice che in linea di principio ogni musica può venire impiegata all’interno del culto divino (15), Harnoncourt accenna a più profondi ed essenziali nessi tra determinati atteggiamenti di vita ed espressioni musicali ad essi adeguati, e prosegue: «Sono convinto che anche per l’incontro con il mistero della fede… ci sono musiche particolarmente adeguate e anche musiche non adeguate… » (16). In effetti una musica che debba servire alla liturgia cristiana deve corrispondere al Logos, concretamente deve stare in una significativa subordinazione a «quella» Parola in cui il Logos si è espresso. Non si può, nemmeno come musica strumentale, distaccare dall’interiore direzione di questa Parola, che apre uno spazio infinito, ma traccia anche linee di demarcazione. Essa deve in base alla sua essenza essere diversa da quella musica che è destinata a condurre verso l’estasi ritmica, lo stordimento degli allucinogeni, l’emozione sensuale, la dissoluzione dell’io nel Nirvana, per nominare solo alcuni atteggiamenti possibili.
Su questo esiste una bella frase nella spiegazione del Padre Nostro di san Cipriano: «Delle parole e dell’atteggiamento della preghiera fa parte una disciplina, che include una quiete e un rispetto. Pensiamo al fatto che siamo sotto gli occhi di Dio. Agli occhi divini bisogna piacere anche attraverso l’atteggiamento del corpo e il padroneggiamento della sua voce. L’assenza di vergogna si esprime anche nel gridare abituale, mentre ai timorati di Dio si addice pregare con parole piene di timidezza… Quando noi ci raduniamo insieme con i fratelli e con il sacerdote di Dio celebriamo il sacrificio divino, non possiamo scuotere l’aria con rumori senza forma, e nemmeno gettare addosso a Dio le nostre preghiere con un chiacchiericcio sguaiato, quelle preghiere che invece gli dovremmo presentare con umiltà, poiché Dio.., non ha bisogno che noi gli ricordiamo tutto ciò con le nostre grida…» (17)
Naturalmente questo parametro interiore deve essere inserito in una musica adeguata al Logos: essa deve introdurre nella comunione con Cristo gli uomini qui ed ora, in questo tempo e in questo luogo, come oranti. Essa deve essere ad essi accessibile, ma al contempo condurli oltre, e cioè condurli in quella direzione che la liturgia stessa, in maniera insuperabilmente concisa, formula all’inizio del canone: «Sursum corda» – il cuore, cioè l’uomo interiore, tutto il mio io, in alto verso Dio, verso quell’altezza che è Dio e che in Cristo tocca la terra, attira a sé ed eleva a sé.
5. Coro e comunità: la questione del linguaggio
Prima di tentare di applicare queste affermazioni di fondo ad alcuni specifici problemi della musica sacra nel duomo di Ratisbona, c’è ancora qualcosa da dire circa i soggetti della musica liturgica e il linguaggio dei canti. Dove è in vigore un concetto di comunità esageratamente gonfiato e (come abbiamo potuto constatare) completamente irrealistico proprio in una società mobile come la nostra, possono venir riconosciuti come soggetti legittimi del canto liturgico solo il prete e la comunità.
Il primitivo azionismo e il piatto razionalismo pedagogico di una simile posizione è oggi divenuto oltremodo evidente e viene perciò sostenuto oramai solo raramente. Che anche la «schola» e il coro possano contribuire al tutto non viene oramai quasi più contestato, persino laddove si interpreta erroneamente il motto post-conciliare della «partecipazione attiva» nel senso di un azionismo esteriore. A dire il vero continuano ad esserci delle eccezioni, delle quali parleremo fra poco. Esse si fondano su di un’insufficiente interpretazione della collaborazione liturgica, in cui mai soltanto la comunità presente può essere soggetto, bensì questa può venir intesa solamente come assemblea aperta verso l’alto e a partire dall’alto, sincronicamente e diacronicamente, verso tutta l’ampiezza della storia di Dio.
Nuovamente ha qui apportato un importante punto di vista Harnoncourt, allorché egli parla di forme elevate che nella liturgia come festa di Dio non possono mancare, ma che dalla comunità come un tutto non possono venir adempiute. Egli prosegue: «Il coro dunque non sta di fronte ad una comunità che lo ascolta come di fronte ad un pubblico che vuole che gli si canti qualcosa, ma è egli stesso parte di questa comunità e canta per essa nel senso di una legittima rappresentanza». (18) Il concetto di rappresentanza è una delle categorie di fondo della fede cristiana, che concerne tutti i livelli della realtà di fede e così è essenziale anche nell’assemblea liturgica. (19)
L’idea che si tratti di rappresentanza dissolve in effetti la concorrenza di chi sta di fronte. Il coro agisce per gli altri e li include nella sua propria azione. Attraverso il suo canto tutti possono venir condotti in quella grande liturgia della comunione dei santi e così in quella preghiera interiore che strappa il nostro cuore verso l’alto e al di là di tutte le le realizzazioni terrene ci fa entrare nella Gerusalemme celeste.
Ma si può propriamente cantare in latino se la gente non lo capisce?
Dopo il concilio è comparso in certi luoghi un fanatismo della madre-lingua che in una società multiculturale è davvero astruso, così come in una società mobile ha poca logicità una ipostatizzazione della comunità.
Prescindiamo dapprima dal fatto che un testo non è ancora già comprensibile a tutti per il fatto che lo si traduce nella propria madrelingua, anche se con ciò è toccata una questione di non poca importanza. Un aspetto essenziale per la liturgia cristiana in generale lo ha nuovamente presentato in maniera eccellente Philipp Harnoncourt: «Questa celebrazione non viene interrotta non appena si canta o si suona…, ma essa mostra invece proprio così il suo carattere di ‘celebrazione’. Questa esigenza non richiede però né unità nella lingua liturgica, né unità nello stile delle parti musicali. La tradizionale cosiddetta ‘Messa in latino’ ha sempre parti aramaiche (Amen, Alleluia, Hosanna, Maranatha), greche (Kyrie eleison, Trishagion), e la predica veniva di regola tenuta nella lingua della gente. La vita reale non conosce l’unità e perfezione stilistica, al contrario, dove qualcosa davvero è vivo si mostrerà sempre una molteplicità di forme e di stili… l’unità è un’unità organica» (20).
A partire da queste vedute, il maestro di cappella del duomo, che ora va in pensione, nei trent’anni di cambiamenti teologici e liturgici in cui gli era stato affidato il suo incarico, sostenuto dalla fiducia sia del vescovo Graber, sia da quella del suo successore Manfred Müller, sia da quella dei vescovi ausiliari Flügel, Guggenberger e Schraml, non di rado ha saputo, remando controvento, di contro a correnti impetuose, guidare la continuità nello sviluppo e lo sviluppo nella continuità. Grazie alla profonda comprensione e accordo con i vescovi responsabili e i loro collaboratori egli poté, senza perdersi e allo stesso tempo restando aperto, contribuire essenzialmente a che la liturgia nel duomo di Ratisbona conservasse la sua dignità e grandezza, la sua trasparenza verso la liturgia cosmica del Logos nell’unità di tutta la Chiesa, senza che essa assumesse carattere da museo o si irrigidisse in disparte, nostalgicamente.
Vorrei alla fine illuminare brevemente ancora due esempi caratteristici di questa lotta per la continuità nello sviluppo, anche di contro alle opinioni dominanti: la questione del Sanctus e del Benedictus e quella circa il luogo significativo dell‘Agnus Dei.
6. Questioni singole.- Sanctus, Benedictus, Agnus Dei
Il mio collega e amico dei tempi di Münster, Lengeling, ha detto che se si comprende il Sanctus come parte autentica della comunità che celebra la Messa, «allora ne risultano non solo stringenti conseguenze per nuove traduzioni musicali, ma anche l’esclusione della maggior parte delle musiche gregoriane e di tutte le musiche polifoniche, poiché esse escludono il popolo dal canto e non rispettanto il carattere di acclamazione». (21)
Con tutto il rispetto per il grande liturgista, questa affermazione dimostra che anche gli esperti possono grossolanamente mancare il bersaglio. La diffidenza è in primo luogo sempre opportuna, lì dove una gran parte della storia vivente deve venir gettata sul mucchio dei rifiuti dei fraintendimenti. Questo vale ancor più per la liturgia cristiana, che vive della continuità e dell’interiore unità della storia della preghiera cristiana.
In effetti l’affermazione del carattere di acclamazione, che potrebbe venir realizzato solo per mezzo della comunità, non è giustificabile in base a nessuna motivazione. Il prefazio si conclude sempre, in tutta la tradizione liturgica dell’Occidente come dell’Oriente, con l’accenno alla liturgia celeste, e invita la comunità radunata a inserirsi nell’acclamazione dei cori celesti. Proprio la chiusura del prefazio ha inciso decisamente sull’iconografia della Maiestas Domini, dalla quale io ero partito in queste mie riflessioni. (22)
Nel testo liturgico del Sanctus sono da osservare tre nuovi accenti rispetto al fondamento biblico di Isaia 6 (23).
Il palcoscenico non è più, come nel profeta, il tempio di Gerusalemme, ma il cielo, che nel mistero si apre verso la terra. Per questo non sono più semplicemente i serafini che acclamano, bensì l’intera schiera del cielo, nella cui acclamazione, a partire da Cristo, che unisce cielo e terra reciprocamente, può inserirsi l’intera Chiesa, l’umanità salvata. Infine il Sanctus è stato perciò cambiato dalla terza alla seconda persona: cielo e terra sono pieni della «tua» gloria.
L’Osanna, originariamente un grido d’aiuto, diventa così un canto di lode.
Chi non tiene conto del carattere misterico e del carattere cosmico dell’invito a inserirsi nel canto di lode dei cori celesti ha già fallito la comprensione del tutto.
Questo unirsi al coro celeste può avvenire in molteplice maniera, e ha sempre a che fare con la rappresentanza vicaria. La comunità radunata in un luogo si apre al tutto. Essa rappresenta anche gli assenti, si unisce ai lontani e ai vicini. Se in essa c’è il coro, che la può attirare più fortemente che il suo proprio balbettare nella liturgia di lode cosmica e negli aperti orizzonti di cielo e terra, allora proprio in questo istante la funzione rappresentativa del coro è particolarmente opportuna. Per esso può venir donata una maggiore trasparenza verso il canto di lode degli angeli e perciò una più profonda capacità interiore di unirsi al canto, di quanto non possa fare in tanti luoghi il proprio acclamare e cantare.
Ora io sospetto a dire il vero che la vera obiezione non consista affatto nel carattere di acclamazione e nella richiesta che tutti cantino; questo mi sembrerebbe troppo banale. Dietro ci sta certamente il timore che attraverso un Sanctus eseguito dal coro, soprattutto se deve poi venire obbligatoriamente collegato col Benedictus, proprio all’entrata nel Canone entri una specie di impianto orchestrale e quindi una pausa nella preghiera in un punto m cui non sarebbe minimamente sostenibile. In effetti, se si presuppone che non c’è alcuna rappresentanza vicaria e alcun cantare e pregare assieme nel silenzio esteriore, allora questa obiezione sarebbe giusta. Se durante il Sanctus tutti quelli che non cantano attendono solamente la sua fine o si dedicano all’ascolto di un pezzo di concerto, allora sì che l’esecuzione con il coro è insostenibile. Ma deve essere proprio così? Non abbiamo forse qui disimparato qualcosa, qualcosa che dobbiamo urgentemente reimparare?
Forse è a questo punto utile ricordare che la preghiera silenziosa del Canone da parte del sacerdote non è sopraggiunta perché ad esempio il Sanctus era diventato così lungo che adesso bisognava già cominciare a pregare, per guadagnare tempo. La sequenza è alla rovescia. Sicuramente a partire dall’epoca carolingia, ma forse anche prima, il sacerdote esordisce col Canone «in silenzio»; il Canone è il tempo del puro silenzio come «preparazione alla vicinanza di Dio» (24). A volte si è poi imposto un «officio di preghiera di accompagnanento, paragonabile alle Ektenie orientali… come velo esteriore sopra la silenziosa preghiera del Canone da parte del celebrante» (25). Più tardi fu il canto del coro che – come disse Jungmann – «continua a mantenere l’antica dominante del Canone, ringraziamento e canto di lode, e per l’orecchio dei partecipanti lo estende anche al di là del Canone» (26).
Anche se noi non vogliamo tornare a ripristinare questa situazione, essa può tuttavia offrire un’indicazione: non ci fa bene, prima dell’irrompere del mistero, avere un momento di silenzio pieno, ove il coro ci raccoglie interiormente, conducendo ognuno nella preghiera silenziosa e proprio così in una unione possibile solo interiormente? Non dobbiamo forse imparare nuovamente proprio questo silenzioso intimo pregare insieme gli uni con gli altri e con gli angeli e i santi, i vivi e i defunti, e con Cristo stesso, affinché le parole del Canone non divengano delle formule abusate, che noi poi vanamente tentiamo di rimpiazzare con sempre nuovi giri di parole, in cui cerchiamo solo di nascondere l’assenza dell’autentico evento interiore della liturgia, l’uscita dal discorso umano per arrivare a toccare l’eterno?
L’esclusione sostenuta da Lengeling e da molti altri dopo di lui, è senza senso. Il Sanctus corale ha anche dopo il Vaticano n il suo buon diritto.
Ma come stanno le cose con il Benedictus? L’affermazione secondo cui non potrebbe in nessun modo venir separato dal Sanctus è stata messa m piedi con così tanta insistenza e apparente competenza, che solo poche anime forti sono in grado di contrapporvisi. Ma essa non è né storicamente, né teologicamente, né liturgicamente giustificabile. Naturalmente ha una sensatezza cantare le due parti insieme, ove la composizione offra questo nesso, che è assai antico e molto ben fondato. Ciò che bisogna rifiutare è anche qui nuovamente l’esclusione.
Sanctus e Benedictus hanno il loro proprio posto nella Scrittura e si sono perciò dapprima sviluppati anche separatamente. Mentre incontriamo il Sanctus già nella prima lettera di Clemente (34,5s.) (27), dunque certamente ancora in epoca apostolica, incontriamo il Benedictus, per quanto mi è dato vedere, per la prima volta nelle Costituzioni Apostoliche, quindi nella seconda metà del quarto secolo, qui come acclamazione prima della distribuzione della Santa Comunione, come risposta alla frase: «Il Santo ai santi». La troviamo nuovamente nelle Gallie a partire dal sesto secolo, dove si è unita al Sanctus, come è accaduto parimenti nella tradizione della Chiesa orientale (28). Mentre il Sanctus è stato sviluppato a partire da Isaia 6 e poi dalla Gerusalemme terrena è stato trasferito a quella celeste e così è divenuto un canto della Chiesa, il Benedictus si fonda su una rilettura neo- testamentaria del Salmo 117(118), 26. Nel testo veterotestamentario questo versetto è una parola di benedizione all’arrivo della festosa processione nel tempio; nella domenica delle Palme ha acquistato un nuovo significato, che certamente era già preparato nello sviluppo della preghiera giudaica. Infatti la parola «Colui che viene» era divenuta un nome per il Messia (29). Quando la gioventù di Gerusalemme la domenica delle Palme acclama Gesù con questo versetto, essa lo saluta come Messia, come re del tempo finale, che entra nella città santa e nel tempio per prenderne possesso.
Il Sanctus è subordinato all’eterna gloria di Dio; il Benedictus si riferisce invece alla venuta del Dio fatto uomo in mezzo a noi. Cristo, Colui che è venuto, è anche sempre Colui che sta per venire: la sua venuta eucaristica, l’anticipazione della sua «ora», fa diventare la promessa una presenza e riunisce il futuro al nostro oggi. Per questo il Benedictus è sia un andare incontro alla consacrazione, sia un’acclamazione al Signore divenuto presente grazie ai gesti eucaristici. Il grande momento della venuta, la straordinarietà della sua presenza reale negli elementi della terra, esige formalmente una risposta: elevazione, genuflessione, suono delle campane sono un tale balbettante tentativo di risposta (30).
La riforma liturgica – parallelamente al rito bizantino – ha formulato un’acclamazione del popolo: «Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione…». La domanda circa ulteriori possibili acclamazioni di saluto per il Signore venuto e che sta per venire è però posta, e per me è evidente che non c’è acclamazione più adeguata e più profonda, e allo stesso tempo più suffragata dalla tradizione, che appunto questa: sia benedetto Colui che viene nel nome del Signore. La separazione di Sanctus e Benedictus è cioè non necessaria, ma altamente sensata. Se il Sanctus e il Benedictus vengono cantati insieme dal coro l’interruzione tra il prefazio e il canone può in effetti diventare troppo lunga, cosicché non è più utile all’entrata silenziosa e compartecipe nella cosmica liturgia di lode, poiché la tensione interiore non resiste. Se invece dopo la transustanziazione vi è ancora spazio per un silenzio pieno e un interiore saluto al Signore, ciò corrisponde assai profondamente all’intima struttura dell’evento.
La messa al bando, da parte dei maestri di cappella, di una tale suddivisione, sorta non senza fondamento durante lo sviluppo storico, la si dovrebbe dimenticare il più presto possibile.
Ancora una parola sull’Agnus Dei. Nel duomo di Ratisbona è divenuto usuale che dopo lo scambio del segno di pace il triplice Agnus Dei venga detto dapprima dal prete e dal popolo insieme. Dal coro viene poi ulteriormente eseguito durante la distribuzione della Comunione, come canto di Comunione. Di fronte a ciò si sostenne che l’Agnus Dei fa parte dello spezzare del pane. Solamente un arcaismo completamente fossilizzato può trarre da questa sua originaria destinazione ad accompagnare il momento dello spezzare il pane, la conseguenza che debba venir cantato esclusivamente a questo punto. Di fatto già nel nono e nel decimo secolo, allorché i riti antichi dello spezzare del pane non erano più necessari, a causa delle ostie nuove, è divenuto un canto di Comunione. Jungmann accenna al fatto che già nel primo medioevo veniva cantato solo un Agnus Dei dopo il saluto di pace, mentre il secondo e il terzo trovarono il loro posto dopo la Comunione e così accompagnavano la distribuzione della Comunione, là dove aveva luogo. (31)
E l’invocazione della misericordia di Cristo, l’Agnello di Dio, non è forse sensata proprio nel momento in cui Egli come agnello senza difesa si consegna nuovamente nelle nostre mani, Egli, l’immolato ma anche trionfante agnello di Dio, che tiene in mano le chiavi della storia (Ap 5)? E l’invocazione della pace fatta a lui, l’indifeso, e come tale il vincitore, non è forse particolarmente indicata nel momento in cui si riceve la Comunione, giacché pace era proprio una delle denominazioni dell’Eucaristia nella Chiesa antica, poiché essa abbatte i confini tra terra e cielo, tra popoli e stati, e unisce gli uomini nell’unità del corpo di Cristo?
La tradizione di Ratisbona e la riforma conciliare e post-conciliare appaiono ad un primo sguardo come due mondi contrapposti, che urtano l’un contro l’altro in un duro contrasto. Chi è stato per tre decenni in mezzo ad essi può sentire sulla sua pelle la durezza delle questioni poste. Ma se questa tensione viene sopportata, si vede che un unico cammino. Solo se le si tiene assieme l’una con l’altra tutte queste tappe costituiscono allora giustamente comprese e si sviluppa la vera riforma nello spirito del Vaticano II. Una riforma che non è frattura e distruzione, ma purificazione e crescita in direzione di una nuova maturità e di una nuova pienezza.
Al maestro di cappella del duomo, che ha sopportato questa tensione, vanno i ringraziamenti: questo è stato non solo un servizio a Ratisbona e al suo duomo, ma un servizio alla Chiesa intera.
J. Ratzinger
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Note:
* Ho consapevolmente mantenuto il linguaggio colorito di questa conferenza tenuta in occasione del congedo di mio fratello dall’incarico di maestro di cappella del duomo di Ratisbona, per la ragione che è proprio nel caso concreto che, a mio avviso, si possono chiarire e spiegare al meglio le cose fondamentali.
(1) Cfr. su ciò H. Stampfer, H. Walder, Die Kripten von Marienberg im Vinschgau, Bolzano 1982.
(2) Importante sul tema della «vita angelica» J. Leclercq, Wissenschaft und Gottverlangen, Düsseldorf 1963, p. 70 (orig. franc. Amour des lettres et désir de Dieu, Paris 1953). Cfr. anche H. Stampfer – H. Walder, loc. cit., p. 20.
(3) H. Schützeichel, Wohin soll ich mich wenden? Zur Situation der Kirchenmusik im deutschen Sprachraum, in StdZ 209 (1991), pp. 363-374.
(4) Testo originale italiano in AAS 36 (190), pp. 329-339; trad. tedesca in HB. Meiyer, R. Pacik (a cura di), Dokumente zur Kirchenmusik unter besonderer Berücksichtigung des deutschen Sprachgebietes, Regensburg 1981, p. 23-34. Un implicito accenno a Regensburg (Ratisbona) lo si può trovare nell’introduzione a p. 24.
(5) Nell’introduzione al «Motu proprio» (p. 25) e in II 3 (pp. 27s.) si parla espressamente della partecipazione attiva dei fedeli come di un fondamentale principio liturgico. G. Romanato, Pio X. La vita di Papa Sarto, Milano 1992, disegna la preistoria del «Motu proprio» nella biografia di Pio X: nel seminario di Padova egli aveva diretto la «Schola cantorum», e in un quaderno che portava con sé ancora da patriarca di Venezia aveva steso alcune note sull’argomento. Come vescovo di Mantova aveva speso molto tempo ed energie, durante la riorganizzazione del Seminario, per la «scuola di musica». Lì imparò a conoscere anche Lorenzo Perosi, che gli rimase molto amico e che dal suo studio a Regensburg aveva ricevuto impulsi determinanti per la sua opera di musicista. A Venezia proseguì l’incontro con Perosi. Lì pubblicò nel 1895 una lettera pastorale, che si basa su uno scritto che nel 1893 egli aveva inviato alla Congregazione dei Riti e quasi alla lettera anticipa il «Motu proprio» del 1913 (pp. 179ss.; pp. 213s.; pp. 247s.; p. 330).
(6) Romanato, op. cit., p. 247, rinvia anche al giudizio di R. Aubert, che ha definito Pio X come il più grande riformatore della vita interna della Chiesa dal tempo del concilio di Trento.
(7) Schützeichel, op. cii., pp. 363-366.
(8) Catechismo della Chiesa Cattolica, 1069.
(9) Ibid.
(10) Ibid., 1097.
(11) Cfr. Costituzione liturgica, 8; vedi anche la nota seguente.
(12) Catechismo, 1090; Costituzione liturgica, 8. Il Catechismo ricorda che la stessa idea è stata espressa anche nella Costituzione sulla Chiesa, 50, ultima frase.
(13) P. Harnoncourt, Gesang und Musik ivi Gottesdienst, in H. Schützeichel, Die Messe. Ein kirchenmusikalisches Handbuch, Düsseldorf 1991, pp. 9-25, citazione di p. 13.
(14) Op. cit., 17.
(15) Op. cit., p. 336.
(16) Op. cit., p. 24.
(17) De dominjca oratione, 4, CSEL, III,1 (a cura di Hartel), pp. 268s.
(18) Op. cit., p. 17.
(19) Cfr. su questo il lavoro meticoloso di W. Menke, Stellvertretung. Schlüsselbegriff christlichen Lebens und theologische Grundkategorie, Einsiedeln-Freiburg 1991.
(20) Op. cit., p. 21.
(21) E.J. Lengeling, Die neue Ordnung der Eucharistiefeier, Regensburg 19712, p. 234. Cfr. B. Jeggle-Merz, H. Schützeichel «Eucharistiefeier» in H. Schützeichel, Die Messe (vedi nota 13), pp. 90- 151, qui pp. 109s.
(22) Cfr. K. Onasch, Kunst und Liturgie deir Ostkirche, Wien-Köln-Graz 1984, p. 329.
(23) Cfr. J.A. Jungmann, Missarum sollemnia II, Freiburg 1952, pp. 168ss.
(24) Ibid., p. 174.
(25) Ibid., pp. 175s.
(26) Ibid., p. 172.
(27) Cfr. K. Onasch, op. cit., p. 329; Jungmann, op. cit., p. 166. In san Clemente (Ad Cor., 34) si trova già anche il collegamento di Ger 6 con Dn 7,10, che è presupposto nella composizione del Sanctus liturgico; è precisamente quella visione che abbiamo trovato nelle immagini di Marienberg: «Facciamo attenzione a come tutta la schiera dei suoi angeli sta presso di lui». Sulla datazione di 1 Clem. cfr. Th.J. Herron, The dating of the first epistle of Clemens to the Corinthians, Roma 1988. Herron tenta di mostrare che 1 Clem. non è da datare nel 96 dopo Cristo circa, ma piuttosto attorno al 70.
(28) Jungmann, op. cit., pp. 170s. (note 41 e 42).
(29) Jungmann, op. cit., p. 171, nota 42. Cfr. R. Pesch, Das Markusevangelium, II, Freiburg 1977, p. 184.
(30) Cfr. Jungmann, op. cit., p. 165. In questo contesto può interessare l’accenno al fatto che il «Motu proprio» di Pio x del 1903 in III, 8 (p. 29) insiste sul fatto che nei canti della S. Messa possono essere impiegati solo i testi liturgici. Solo «una» eccezione viene ammessa: conformemente all’uso della Chiesa di Roma dopo il Benedictus della Messa Solenne può venir cantato un mottetto al Santissimo sacramento.
(31) Op. cit., pp. 413-422.