Conferenza tenuta in occasione delle celebrazioni per i dieci anni del Motu proprio “Ecclesia Dei”, translated by Fr. Ignatius Harrison, Brompton Oratory, London
Traduzione dall’originale frencese tratta, con qualche lieve correzione, dal Notiziario 126-127 di UNA VOCE, Associazione per la salvaguardia dell liturgia latino-gregoriana, 00186, Roma, Via Giulia – telefono 06 6868353 – ccp. 68822006 (pp.4-7).
A dieci anni dalla pubblicazione del Motu Proprio “Ecclesia Dei”, quale valutazione possiamo fare? Penso che questa sia innanzitutto un’occasione per mostrare la nostra gratitudine e per esprimere ringraziamenti. Le diverse comunità che sono sorte grazie al documento pontificio hanno dato alla Chiesa un gran numero di vocazioni sacerdotali e religiose che con zelo, in letizia e in stretta unione con il Papa, hanno offerto il loro servizio alla Chiesa in questo nostro attuale periodo storico. Per mezzo loro molti tra i fedeli sono stati confermati nella gioia di vivere la liturgia e confermati nel loro amore per la Chiesa o forse hanno riscoperto entrambe le cose. In molte diocesi – e il loro numero è tutt’altro che piccolo – essi servono la Chiesa in collaborazione con i Vescovi e in unione fraterna con quei fedeli che si sentono a loro agio con le mutate forme della nuova liturgia. Per tutto questo non possiamo mancare oggi di rendere grazie.
Non sarebbe tuttavia realistico se sorvolassimo in silenzio su quelle cose che sono meno positive. In molti luoghi persistono e si perpetuano difficoltà perché alcuni vescovi, preti e fedeli considerano questo attaccamento alla vecchia liturgia come un elemento di divisione che non può non disturbare la comunità ecclesiale e non far supporre una certa riserva quanto all’accettazione del Concilio e, più in generale, all’obbedienza verso i legittimi pastori della Chiesa.
Le domande che dobbiamo porci sono dunque le seguenti: come si possono superare queste difficoltà? Come si può costruire la necessaria fiducia nei gruppi e nelle comunità che amano l’antica liturgia e che vogliono sia pacificamente integrata nella vita della Chiesa? Ma c’è un’altra domanda che deriva dalle precedenti: qual è la ragione profonda di questa sfiducia e del rifiuto di perpetuare le antiche forme liturgiche?
È senza dubbio possibile che in questo campo esistano ragioni che sono a monte di ogni considerazione teologica e che hanno le loro radici nel carattere degli individui, o nel contrasto tra i diversi caratteri, o in altri elementi affatto esteriori. Ma è certo che vi sono anche altre e più profonde ragioni che spiegano questi problemi. Due sono le ragioni che vengono più frequentemente addotte: mancanza di obbedienza al Concilio che volle riformati i libri liturgici e rottura dell’unità come conseguenza necessaria del lasciare in uso forme liturgiche differenti. E’ relativamente semplice confutare sul piano teoretico questi due ragionamenti. Non è stato il Concilio a riformare i libri liturgici, esso ne ha ordinato la revisione e, a questo fine, ha fissato alcuni principi fondamentali. In primo luogo il Concilio ha dato una definizione di che cos’è la liturgia e questa definizione fornisce un metro di giudizio per ogni celebrazione liturgica. Se si ignorano queste regole essenziali e si accantonano le “normae generales” formulate nei numeri 34-36 della Costituzione “De Sacra Liturgia”, allora si che si disubbidisce al Concilio! È alla luce di quei criteri che le celebrazioni liturgiche debbono essere giudicate, siano esse basate sui vecchi o sui nuovi testi. Va qui ricordato quanto osservo il Cardinale Newman: nel corso della sua storia la Chiesa non ha mai abolito o proibito forme ortodosse di liturgia, perché ciò sarebbe estraneo allo spirito stesso della Chiesa. Una liturgia ortodossa, vale a dire una liturgia che esprime la vera fede, non è mai una raccolta fatta secondo criteri pragmatici di cerimonie diverse, manipolabili ad arbitrio, oggi in un modo e domani in un altro. Le forme ortodosse di un rito sono realtà viventi, sgorgate dal dialogo tra la Chiesa e il suo Signore; sono l’espressione della vita della Chiesa, in cui si condensano la fede, la preghiera e la vita stessa delle generazioni, dove è incarnata nello stesso tempo in forma concreta l’azione di Dio e la risposta dell’uomo. Questi riti possono estinguersi se il soggetto che li usa in un particolare momento scompare, o se questo soggetto viene ad inserirsi in un altro modo di vita. In situazioni storiche diverse l’autorità della Chiesa può stabilire e limitare l’uso dei riti, ma non li vieta mai sic et simpliciter! Cosi il Concilio ha ordinato una riforma dei libri liturgici, ma non ha proibito i libri precedenti. Il criterio espresso dal Concilio è più ampio e più esigente: esso ha invitato tutti all’autocritica. Su questo punto ritorneremo.
Esaminiamo ora l’altro argomento, quello secondo cui l’esistenza di due riti è un ostacolo all’unità. Occorre qui distinguere fra l’aspetto teologico e quello pratico. Dal punto di vista teoretico e fondamentale occorre rendersi conto che sono sempre esistite molte forme del rito latino e che esse sono gradualmente cadute in disuso in seguito alla maggiore coesione delle culture secolari europee. Fino al Concilio, a fianco del Rito Romano sono esistiti quello Ambrosiano, quello Mozarabico di Toledo, quello di Braga, quello di Chartreux, quello dei Certosini, quello dei Domenicani, il più noto di tutti, e forse altri di cui non ho conoscenza. Nessuno si è mai scandalizzato che i Domenicani, spesso presenti nelle nostre parrocchie, non celebrassero come i preti secolari ma seguissero un rito proprio. Non abbiamo mai avuto alcun dubbio che il loro rito fosse cattolico al pari di quello romano ed eravamo fieri della ricchezza di tante diverse tradizioni. Inoltre si può dire questo: che viene spesso ampliata la libertà che il nuovo Ordo Missae lascia alla creatività, e che la differenza fra liturgie che si celebrano secondo i nuovi libri, così come vengono di fatto messe in pratica e celebrate nei diversi luoghi, è spesso più grande di quella tra l’antica e la nuova liturgia, quando l’una e l’altra vengono celebrate in conformità con le prescrizioni dei libri liturgici. Il cristiano medio, privo di una cultura liturgica specialistica, ha difficoltà a distinguere tra una Messa cantata in latino secondo il vecchio Messale ed una cantata in latino secondo quello nuovo. La differenza fra una celebrazione liturgica che si attiene fedelmente al Messale di Paolo VI e la realtà di celebrazioni in lingua corrente, con tutte le possibili libertà di partecipazione e di creatività, quella differenza si che può essere enorme!
A me sembra che i contrasti che abbiamo menzionato sono così grandi perché le due forme di celebrazione vengono a giustapporsi a due atteggiamenti spirituali, vale a dire a due modi diversi di concepire la Chiesa e l’essere cristiani. Le ragioni sono molte. La prima è questa: si giudicano le due forme liturgiche dalle loro caratteristiche esteriori e si giunge così alla conclusione che ei sono due differenti atteggiamenti di fondo. Il cristiano medio considera essenziale nella nuova liturgia che essa sia celebrata nella lingua corrente e rivolti ai fedeli, che sia lasciato ampio spazio alla libera creatività e all’esercizio per i laici di un ruolo attivo; nella vecchia liturgia al contrario ritiene essenziale che essa sia in latino, che il sacerdote sia rivolto verso l’altare, che il rito si svolga secondo tutte le prescrizioni e che i fedeli seguano la Messa in preghiera silenziosa senza alcun ruolo attivo.
Questo punto di vista considera essenziale per una liturgia la sua fenomenologia, non quanto la liturgia stessa considera come essenziale. C’era da attendersi che i fedeli avrebbero interpretato la liturgia a partire dalle forme concrete visibili e che da quelle forme sarebbero stati determinati spiritualmente: i fedeli non penetrano facilmente nelle profondità della liturgia.
Le contraddizioni e i contrasti che abbiamo elencati non hanno origine né dallo spirito del Concilio, né dai documenti conciliari. Nella “Costituzione sulla Sacra Liturgia” non si parla di celebrazione verso l’altare o verso il popolo; in tema di lingua si dice che il latino deve essere mantenuto pur dando un più ampio spazio al vernacolo “specialmente nelle letture e nelle monizioni, in alcune preghiere e nei canti” (SL, n. 36, 2). Quanto alla partecipazione dei laici il Concilio ribadisce che la liturgia è essenzialmente cura dell’intero Corpo di Cristo, Capo e membra (SL, n. 7), che essa appartiene “all’intero Corpo mistico della Chiesa” (SL, n. 26) e conseguentemente comporta “una celebrazione comunitaria con la presenza e la partecipazione attiva dei fedeli” (SL, n. 27). E il testo specifica: “nelle celebrazioni liturgiche ciascuno, ministro o fedele, svolgendo il proprio ufficio, compia soltanto e tutto ciò che gli compete, secondo la natura del rito e le norme liturgiche” (SL, n. 28); e ancora: “per promuovere la partecipazione attiva si curino le acclamazioni del popolo, le risposte, la salmodia, le antifone, i canti, come pure le azioni, i gesti e l’atteggiamento del corpo; si osservi anche, a tempo debito, il sacro silenzio” (SL, n. 30).
Queste le direttive del Concilio; esse possono fornire a tutti materia di riflessione. In una pane dei liturgisti moderni c’è purtroppo la tendenza a sviluppare i principi del Concilio in una sola direzione, rovesciando così gli intendimenti stessi del Concilio. Il ruolo del sacerdote è ridotto da alcuni a qualcosa di semplicemente funzionale. Il fatto che il Corpo di Cristo nella sua interezza è il soggetto della liturgia viene spesso stravolto fino al punto che la comunità locale diviene il soggetto autosufficiente della liturgia e i diversi ruoli vengono distribuiti al suo interno. C’è poi una pericolosa tendenza a minimizzare il carattere sacrificale della Messa e ad indurre alla sparizione del mistero e del sacro con il pretesto – un pretesto asserito imperativo – che in questo modo ci si fa comprendere meglio. Infine si percepisce la tendenza a frammentare la liturgia, mettendo arbitrariamente in rilievo il suo carattere comunitario e conferendo all’assemblea il potere di decidere riguardo alla celebrazione.
Esiste anche, fortunatamente, una cena avversione per un razionalismo pieno di banalità e per un pragmatismo di ceni liturgisti, siano essi dei teorici o dei pratici, e si constata un ritorno al mistero, all’adorazione, al sacro e al carattere cosmico ed escatologico della liturgia, come sottolineato dalla “Oxford Declaration on the Liturgy” del 1996. Occorre riconoscere, d’altra parte, che la celebrazione della vecchia liturgia aveva perduto molto, rifugiandosi nell’individualismo e nel privato, e che la comunione fra sacerdote e popolo era insufficiente. Ho grande rispetto per i nostri vecchi che durante la Messa bassa recitavano le orazioni contenute nei loro libri di preghiere, ma non si può ceno considerare questo come l’ideale di una celebrazione liturgica. Forse, queste riduzioni delle forme celebrative sono la vera ragione per cui in molti paesi la scomparsa dai vecchi libri liturgici non ha avuto peso e la loro perdita non ha causato dolore. Non c’era mai stato, infatti, un contatto con la liturgia in sé. D’altra parte, là dove il Movimento liturgico aveva suscitato un certo amore per la liturgia e aveva anticipato le idee essenziali del Concilio – come, ad esempio, la partecipazione di tutti nella preghiera all’azione liturgica ñ proprio lì è stato maggiore il dolore, di fronte ad una riforma intrapresa troppo frettolosamente e spesso limitata all’esteriorità. Là dove, invece, il Movimento liturgico non è mai esistito la riforma non ha sollevato, in un primo tempo, dei problemi. Questi sono sorti solo sporadicamente là dove il mistero sacro ha ceduto il posto ad una creatività selvaggia.
Per questo è molto importante osservare i principi essenziali della “Costituzione sulla sacra liturgia”, che ho ricordati sopra, anche quando si celebra con il vecchio Messale. Nel momento in cui questa liturgia tocca profondamente i fedeli con la sua bellezza e ricchezza, allora essa sarà amata e non la si porrà più in contrapposizione inconciliabile con la nuova liturgia, purché i criteri siano fedelmente applicati secondo i desideri del Concilio.
Continueranno ad esistere, certamente. accenti spirituali e teologici differenti: non saranno due modi opposti di essere cristiani ma, al contrario, patrimonio della stessa ed unica fede.
Quando, pochi anni fa, qualcuno ha proposto “un nuovo movimento liturgico” per evitare che le due forme liturgiche si distanziassero troppo fra loro e per portare a frutto la loro intima convergenza, alcuni amici della vecchia liturgia hanno espresso il timore che questo fosse solo uno stratagemma o un trucco per ottenere finalmente la completa eliminazione della vecchia liturgia. Queste preoccupazioni e queste paure debbono finire! Se l’unità della fede e l’unicità del mistero appaiono chiaramente in entrambe le forme di celebrazione, ciò può essere solo motivo di rallegrarsi e ringraziare Dio. Quanto più noi tutti crediamo. viviamo e agiamo con tale motivazione, tanto più saremo capaci di persuadere i vescovi che la presenza dell’antica liturgia non turba né rompe l’unità delle loro diocesi, ma è invece un dono destinato a rafforzare il Corpo di Cristo, del quale siamo tutti i servitori.
Così, miei cari amici, vorrei esortarvi a non perdere la pazienza, a continuare ad essere fiduciosi e ad attingere dalla liturgia la forza per rendere testimonianza al Signore in questo nostro tempo.