Testo del Card. Joseph Ratzinger pubblicato da clerus.org, come da costume di quel sito senza data ne’ fonte. Da testimonianze di persone, potrebbe essere attibuile al 1995.
Incontro informale del cardinale Ratzinger con le studentesse universitarie partecipanti ad un convegno dell’Opus Dei, un botta e risposta sui temi sollecitati dalle stesse convegniste: il ruolo del cristiano nella società contemporanea, la sua responsabilità di trasmettere i valori della fede, la pubblicazione del nuovo catechismo, e – in linea con il tema specifico dell’incontro – la riscoperta di una spiritualità del lavoro che apre al laicato un fondamentale spazio all’interno della Chiesa. Ecco le domande e le risposte.
D. Il tema del convegno, intitolato “Il tempo del lavoro”, porta ad affrontare una delle tematiche-chiave della spiritualità dell’Opus Dei , che è appunto quella di santificare il proprio lavoro compiendolo con perfezione, di santificarsi attraverso il lavoro, e di santificare gli altri prendendo spunto dal proprio lavoro. Mi ha sempre colpito come il fondatore dell’Opus Dei insisteva sul fatto di essere persone competenti professionalmente e che poi mettono lo stesso impegno nell’acquisire una formazione dottrinale e religiosa. Le chiedo se può spiegarci l’importanza, soprattutto per noi donne che spesso tendiamo a vivere la fede in modo forse troppo sentimentale, di saper rendere sempre, in ogni situazione, le ragioni della nostra fede.
R. Proprio il Cristianesimo ha dato questa grande importanza al lavoro. Nel mondo antico sono gli schiavi a lavorare, i liberi si occupano di altre cose. La dimensione cristiana si vede soprattutto in una parola del Signore, quando dice che “Mio Padre lavora sempre e Io lavoro”. Egli fa riferimento al Creatore del mondo, che è tuttora Creatore, che non si è ritirato dal mondo ma continua a lavorare con i nostri cuori, con l’intelligenza umana per costruire un mondo che dovrebbe divenire una città di Dio.
Il Cristianesimo è entrato nel mondo con un nuovo concetto di lavoro: esso appartiene alla nostra somiglianza con Dio, e lavorando possiamo realizzare il nostro essere immagine di Dio. Ma perché ciò avvenga, l’agire umano deve essere illuminato dalla parola di Dio, che arricchisce il lavoro di un contenuto etico: nasce così la deontologia, che illumina ogni strada professionale. Ogni lavoro umano porta sempre in sé una carica etica. Perciò devono andare insieme una buona e concreta formazione professionale, che va vista anche come corrispondenza e rispetto al nostro Creatore, e quindi come un dovere religioso, e una adeguata formazione religiosa che illumini i diversi aspetti del lavoro di ognuno.
E mi pare che le università statali di oggi non offrano più questa formazione globale. Forse è questa la lacuna più grave dell’università moderna: che non è più una vera università che forma l’uomo nella sua totalità e profondità, ma si tratta piuttosto di un insieme di specializzazioni. Malgrado questa situazione, ci sono realtà come l’Opus Dei, e anche riunioni come questa, adatte ed anche necessarie per combinare la formazione professionale con quella religiosa, e mostrare al mondo le ragioni della fede.
D. In lei mi hanno sempre colpito, vedendola in televisione, leggendo le cose che ha scritto sui diritti dell’uomo e sulla dignità della persona, il suo ottimismo e la sua fortezza. Da un lato c’è in lei una grande fermezza nel difendere i principi, dall’altro un’allegria, un entusiasmo che anche io vorrei avere per portare a termine nel miglior modo tutto quello che intendo fare. Vorrei sapere lei come fa.
R. È la potenza del dono della fede. Non nasce da noi ma, se siamo disponibili, il Signore ci dà la fede con tutte le sue certezze. Non si tratta di un’invenzione umana, perché le idee che possiamo sviluppare noi possono essere più o meno certe, sono sempre in un certo senso ipotetiche; la fede invece ci dà una luce divina, la certezza che Dio c’è, che ci ha parlato, si è rivelato nella Chiesa e rimane presente fino alla fine del mondo. Molti hanno paura che la fede imprigioni l’uomo, che gli tolga la libertà, e vogliono quindi un sentiero totalmente libero: in realtà la strada da loro scelta non ha fondamento e quindi non può svilupparsi. La fede ci apre la mente all’immensità del mondo, all’immensità delle possibilità umane; la Verità non è chiusa, ma si sviluppa sempre, e va approfondita proprio perché dà luce ai problemi del mondo.
Credere non vuol dire limitare la possibilità del pensiero; al contrario, questo dono dà la luce verde, per così dire, per affrontare l’avventura intellettuale-spirituale, e questo indubbiamente dà allegria. Direi anzi che, privo di una tale certezza fondamentale sull’origine e sulla finalità della nostra vita, l’uomo cade necessariamente in una certa malinconia, perché questa vita gli appare come una cosa noiosa: non si sa più se vale la pena vivere o se sarebbe meglio non vivere; la vita diventa così un grande enigma e la risposta, sia essa positiva o negativa, dipende dalle variazioni delle circostanze.
Con la certezza di un amore fondamentale che ci affianca, che ci aiuta, che ci guida, indicandoci le grandi linee della rappresentazione del mondo e aprendo così tutte le strade del sentiero, non può non venire un’allegria fondamentale. Certo, possono succedere tante cose negative nella mia vita, ma poco importa, se fondamentalmente sono nelle mani dell’Amore e nella strada della Verità. Per concludere direi: credere con fiducia, con la fede della Chiesa, e camminare insieme alla Chiesa, è un avvenimento liberatore ed aiuta a trovare la strada della vita.
D. La Santa Sede, ed in particolare la Congregazione che lei presiede, stanno lavorando per l’elaborazione del Nuovo Catechismo Universale. Questo è un tema che mi tocca moltissimo perché sono una catechista. Ci siamo accorti che nel nostro lavoro di catechesi era molto importante avere un punto di riferimento sicuro per poter dare ai ragazzi la giusta dottrina. Volevo allora sapere quali sono i temi più toccati da questo Nuovo Catechismo Universale, ed anche chiederle se poteva darci qualche consiglio per svolgere il nostro lavoro di catechisti.
R. Il Catechismo è un punto di riferimento e non uno strumento immediato per la catechesi, perché le situazioni sono sempre diverse. Il libro vuole rappresentare un primo passo dalla dottrina come tale alla mediazione catechetica; non soltanto un compendio di dottrina ma già una dottrina tradotta. Per aprire la dottrina a questa azione catechetica abbiamo scelto soprattutto due elementi. Alla fine di ogni capitolo abbiamo delle brevi risposte, che offrono un po’ la sostanza del testo e dovrebbero aiutare per ritrovare un linguaggio comune e una comune memoria della fede, che si sono un po’ perse nel fatto che i contenuti della fede sono stati mediati in espressioni molto diverse. Secondo elemento è che noi affianchiamo alla dottrina le parole di alcuni Santi, che con la loro esperienza mostrano la pienezza e la bellezza della Verità.
Nella stesura del nuovo Catechismo abbiamo fatto riferimento all’impostazione-base del catechismo romano del Concilio di Trento, cioè alle quattro parti che fin dall’inizio sono state essenziali nella catechesi : il Simbolo, cioè il Credo (per prima cosa bisogna conoscere il Simbolo e comprenderne bene il significato delle parole); i sette Sacramenti ; la morale cristiana e il Padre Nostro. Quindi la catechesi originale è una cosa semplice e fondamentale nello stesso tempo. Chi voglia essere cristiano non deve essere per forza un grande dotto, ma deve conoscere le realtà fondamentali: la fede, i sacramenti, come vivere, come pregare. Noi presentiamo il Simbolo non in precetti separati, ma offrendo una visione organica della fede, nella quale si vede un’unica intuizione, che non è una somma di dogmi imposti sulle nostre spalle. È invece un sì: Dio ci ama, e tutti i contenuti di questo amore sono concretizzazioni diverse del sì fondamentale.
È stata nostra intenzione dare soltanto insegnamenti che appartenessero alla eredità della fede, senza introdurre idee personali che – sia pur buone -non possono essere imposte tramite il catechismo. Attuare questa autolimitazione è stato difficile, perché, nel mediare una cosa e renderla comprensibile, è quasi indispensabile personalizzarla. Il rischio in tali casi è di realizzare un testo un po’ freddo, ma spero che quelle parole dei Santi che abbiamo inserito diano il calore sufficiente, e anche una certa personalizzazione.
Quanto al catechista, devo confessare che sono tanti anni che non faccio più catechesi, e perciò non ho il coraggio di dare dei consigli dato anche che le situazioni sono molto diverse da allora. Potrei dire comunque che il grande compito del catechista assomiglia un po’ all’esperienza da noi vissuta, e anche sofferta, nella preparazione del libro: da una parte non bisogna offrire una filosofia personale, ma trasmettere ciò che insegna la Chiesa; dall’altra occorre rendere accessibile la fede anche attraverso il modo con il quale la abbiamo interiorizzata, e in questo senso penso che il successo della catechesi dipenda molto dal modo di fare di ciascuno: se mi sono appropriato della fede, se è divenuta cosa mia, posso arrivare al cuore del catechizzando.
È importante che, a seconda dei diversi livelli, anche le specificazioni dottrinali siano diverse: anche la persona più semplice può capire l’essenza della fede; d’altra parte, anche un teologo deve sempre pensare al Signore che ha elogiato i semplici di cuore perché hanno la capacità di vedere l’essenziale. In una catechesi dei semplici si possono omettere tanti elementi di riflessione cristiana, ma l’essenziale è che Dio ci ha creato, ci ha chiamato, ci conosce, ascolta le nostre preghiere, ci è vicino; questo Dio che è trinitario, cioè che è amore in sé stesso prima di aprirsi a noi e che può aprirsi a noi perché c’è in Lui questo amore; questo Signore che è Figlio di Dio, che è fratello nostro e si unisce con noi nell’Eucarestia.
Questi grandi elementi, che non sono poi tanti e sono in sostanza molto umani, possono essere tradotti benissimo nel linguaggio di oggi, anche se appaiono lontani dal pensiero medio e dominante. Essi contengono un’umanità così profonda che, se correttamente presentati e autenticamente vissuti, trasmettono attraverso la catechesi una autentica gioia.
D. Volevo raccontarle alcune esperienze di volontariato realizzate in quest’ultimo anno. Abbiamo progettato un mese di lavoro sociale in Kenya, in un quartiere periferico di Nairobi e lo stesso faremo in Messico. Qui in Italia abbiamo realizzato corsi di catechesi e anche di promozione urbana in quartieri ‘difficili’ di alcune città. Proprio per far conoscere il Progetto-Kenya, oltre a parlare con le nostre colleghe, abbiamo messo alcuni manifesti nelle università e così siamo venute in contatto con molte ragazze interessate al tema della solidarietà. Con loro ci siamo riunite ogni 15 giorni per studiare meglio il progetto, per trovare i fondi, spedire materiale, preparare le lezioni ed anche approfondire la nostra formazione dottrinale e spirituale. Quando saremo a Nairobi faremo lezioni di igiene alimentare, di costruzione edile, di taglio e cucito, continuando la nostra formazione. Con queste ragazze è nata una bella amicizia e molte di loro si sono riavvicinate ai Sacramenti e a Dio. Personalmente debbo dire che tutte queste attività mi hanno insegnato che devo testimoniare la mia fede proprio attraverso questi ideali comuni a tanti giovani, concretizzati in progetti ben precisi, e in questa linea mi hanno aiutato le parole che lei ha detto un anno fa a Rimini e che ora volevo leggere: “È diffusa oggi qua e là, anche in ambienti ecclesiastici elevati, l’idea che una persona sia tanto più cristiana quanto più è impegnata in attività ecclesiali. A ciascuno si cerca di assegnare un comitato, in ogni caso almeno un impegno all’interno della Chiesa; ma uno specchio che riflette solamente se stesso non è più uno specchio. Una finestra che, invece di consentire uno sguardo libero verso il lontano orizzonte, si frappone come uno schermo tra l’osservatore ed il mondo, ha perso il suo senso”. Le volevo chiedere se può riprendere questi concetti.
R. Mi sembra che questa esperienza di volontariato di cui lei ha parlato sarebbe la migliore risposta a ciò che avevo criticato nella mia relazione, cioè ad una auto-occupazione della Chiesa, della comunità con sé stessa, per costruirsi e riflettersi sempre di nuovo nella sua ecclesialità. Aprendosi all’altro, la fede diventa realtà e, illuminati e incoraggiati dal Signore, non parliamo di noi stessi; essendo uniti con Lui, abbiamo questo coraggio e questa disponibilità a vivere con gli altri, a lavorare con gli altri nel modo e nelle occasioni che Lui ci dà, a contatto con questi problemi mondiali che sono la sfida per la nostra esistenza cristiana in questo tempo.
Questo sarebbe piuttosto il senso del riorientamento per realizzare la fede nel mondo, e non la permanente autoriflessione della Chiesa -come meglio ricostruire, come creare nuovi enti, ecc…- in uno stato retrospettivo. Tutte le attività della Chiesa dovrebbero essere vagliate con questa domanda: siamo realmente strumenti della realizzazione della Parola Divina o siamo solo strumenti della autoriflessione? In ciò che lei ha detto, mi sembra si realizzi questo progetto vero della fede: diventare uno strumento della concretizzazione della Parola nel mondo. Aggiungerei che proprio in questa rinuncia a se stessi e nella disponibilità ad andare verso l’altro, cresce anche la fede e si comincia a capire meglio anche se stessi, e di conseguenza cresce anche la Chiesa.
D. Mi è molto piaciuto quanto lei ha detto in merito ai diritti umani, ed in particolare al fatto che oggigiorno essi vengano dichiarati solennemente ma poi in pratica negati del tutto. Da qui nasce la mia esigenza, che è anche l’esigenza di miei coetanei e colleghi, di cercare un senso della vita cristiano, coerente con le nostre idee. È per questo che alcuni di noi hanno dato origine ad alcune iniziative: all’Università “La Sapienza” di Roma, ad esempio, sono stati fatti dei corsi di deontologia politica, mentre al Policlinico, sempre di Roma, corsi di etica professionale per infermiere. A queste iniziative si accompagnano anche corsi di teologia, che a prima vista potrebbero sembrare soltanto delle gocce d’acqua gettate in un grande oceano. Ci può dire qualche parola per spronarci a continuare in questa direzione?
R. Vedendo i nostri sforzi come gocce d’acqua contro un muro insormontabile, si potrebbe quasi disperare dell’esigenza della fede nel mondo. Però proprio questo è il modo d’agire divino. Immaginando dal punto di vista umano un possibile Redentore del mondo, verrebbe da pensare ad un imperatore, ad un grande politico: un uomo buono, illuminato, obbediente alla volontà divina, che renda felice il mondo attraverso il potere. Ma l’idea divina ovviamente era diversa. Sant’Agostino dice, facendo la stessa riflessione: “Mi domando perché Dio è venuto a redimerci senza nessun potere, nel modo che sembra indegno di Dio” e aggiunge:”Ma era il potere che ha distrutto l’uomo, era il potere il disegno della sedizione diabolica; tramite il potere, nel potere è caduto l’uomo”.
La strada divina è quella dell’amore e della giustizia, e con queste gocce d’acqua si può trasformare il mondo. Nella realtà è già avvenuto così, quando il Signore, iniziando povero in un paese dimenticato e finendo crocifisso, ha dato nuova vita al mondo, e la goccia d’acqua è divenuta un fiume. Pensiamo anche ai grandi Santi. San Benedetto comincia dimenticando il peccato, con un piccolo gruppo di persone poco affidabili. E dai monasteri, piccole isole della sopravvivenza della cultura e dell’umanità, verranno le nuova città, la nuova cultura, la stessa Europa. Lo stesso si può dire per San Francesco. Il coraggio di incominciare di nuovo, e iniziative umane ispirate dalla luce divina, non soltanto sono necessarie, ma rappresentano la vera speranza del mondo. Certo, le grandi imprese positive sono necessarie, ma esse si spengono, muoiono, si inaridiscono se non viene questa piccola fonte d’acqua delle iniziative semplici e personali. In questo senso direi: coraggio! Queste iniziative hanno un senso, hanno un futuro.
D. Nei miei studi di Filosofia, ho avuto a che fare a volte con degli insegnamenti che non lasciavano spazio alla trascendenza o che talvolta comunicavano filosofie impostate sul materialismo e sullo storicismo. Noi ci troviamo in una società nella quale cose che sono contro l’uomo -come l’aborto, l’eutanasia- o ideologie totalmente contrarie alla dottrina cristiana, sono viste come momenti in cui l’uomo ha la possibilità di compiere degli atti di massima libertà. Tutto questo mi fa pensare alla società dove vivevano i primi cristiani, che per certi versi si dovevano trovare in condizioni ancora più difficili delle nostre, eppure sono riusciti a cristianizzare il mondo. Sicuramente è un problema di santità di vita, però, a mio parere, è anche molto importante l’informazione dottrinale, e vedo che il Papa stesso insiste sovente nei suoi discorsi, e in tutto il magistero che ci comunica, nella difesa della vita, nel propugnare solidamente una formazione dottrinale in ogni campo insomma che abbia le sue radici nella fede cattolica. Come possiamo noi giovani, con i nostri coetanei, essere come degli altoparlanti del magistero del Papa?
R. Non è facile rispondere, perché non conosco i vostri ambienti; penso comunque che, vivendo questa comunione nella Prelatura dell’Opus Dei, con le sue ispirazioni e il suo sostegno, si è già fatto un passo importante. Il cristiano isolato non può realizzare tutta la sua vocazione nel mondo di oggi. La grande comunione della Chiesa deve realizzarsi in comunità concrete che ci fanno percepire la realtà della comunione dei Santi, la grande comunione della fede che nasce e che arriva fino alla fine del mondo. L’incontro di tutti i cristiani consapevoli della loro vocazione, che hanno intenzione di vivere la fede con dignità e anche con dinamismo apostolico, offre a mio avviso un’esperienza della comunione che concretizza la realtà stessa della Chiesa. Naturalmente, queste comunioni crescono e, partendo dalla preghiera, dalla liturgia, dalla meditazione della parola divina, diventano comunità di azione.
È fondamentale che in queste comunità si usi un linguaggio nello stesso tempo fedele alla Verità e aperto, comunicabile: siamo persone di questo tempo e ne condividiamo i problemi con sincerità di cuore. Cercando di trovare la ragionevolezza e l’espressione della fede, potremo già rispondere al nostro cuore: in tal modo comincia anche la risposta agli altri. Quindi penso che un insieme, da una parte di comunione dei credenti e dall’altra parte di dinamismo delle comunioni verso il mondo di oggi, potrebbe offrire la risposta alla sua domanda.
D. Studio Teologia all’Istituto Giovanni Paolo II dell’Università Lateranense e sto facendo la tesi di dottorato. Ho affrontato recentemente l’attuale discussione sulla possibilità di un magistero infallibile su delle norme concrete di morale e, riguardo a questo punto, in alcuni libri, come anche quello di Sullivan -‘Magisterium’- mi è sembrato che gli autori concepissero la rivelazione in un modo piuttosto legalista, restringendo cioè l’oggetto dell’infallibilità soltanto alla rivelazione di norme esplicite. A mio parere, quando l’istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo ed anche la professione di fede (nell’ultima formula) affermano che il magistero è infallibile riguardo al contenuto della rivelazione, si riferiscono non solo alle norme etiche esplicitamente rivelate, ma anche a ciò che è la rivelazione come parola di Dio sull’uomo e su Dio, quindi anche a quelle norme etiche che, evidentemente, non potevano essere rivelate esplicitamente, come ad esempio quelle sulla fecondazione in vitro, la contraccezione, ecc… Lei che ne pensa?
R. È una questione non facile, come lei sa bene. Come prima cosa direi che esiste una tendenza ad escludere un insegnamento infallibile, e quindi obbligatorio, nel campo della morale. Così, tutte le indicazioni della Sacra Scrittura, e poi anche della tradizione, sarebbero delle esemplificazioni, sempre connesse a circostanze storiche. Naturalmente non posso entrare nei dettagli degli argomenti filosofici e ideologici che vengono sviluppati a riguardo, ma direi semplicemente che con questa impostazione la fede diventerebbe teoria pura, mentre la fede è sostanzialmente una prassi, è un modo di vivere. Una fede che non avesse la capacità di fare una luce, anche concreta, sul modo di vivere, sarebbe priva del proprio significato.
Pensiamo alla Chiesa antica: è proprio quello il momento decisivo in cui la fede si apre alla Verità, ma la Verità è una cosa reale , insegna a vivere, in risposta alla domanda: “Signore, insegnami le tue vie.” Questa è la domanda fondamentale con la quale sono arrivati alla Chiesa i primi uomini, ed essa vale anche per noi, per trovare la strada della nostra vita. Nel catecumenato il massimo spazio era dedicato all’insegnamento morale, seguendo soprattutto la tradizione dell’Antico Testamento: una volta imparata la norma morale, su come vivere, si arrivavano anche a capire i misteri della fede. I libri dei Padri della Chiesa sottolineano che la fede sostanzialmente si dimostra e si esprime in una vita retta. È quindi un dato certissimo della più autentica tradizione, non solo patristica ma biblica, che la Chiesa ci insegna soprattutto come vivere, ci indica la strada della vita.
L’insegnamento morale sta nel cuore della rivelazione divina, anche se dobbiamo sempre aggiungere che il Cristianesimo non è un moralismo puro, ma insegnando ci guida, e con il perdono ci dà la possibilità di continuare e di ricominciare. Allora questa sottolineatura sull’aspetto morale della rivelazione cristiana non dovrebbe essere mal interpretata; lo Spirito Santo, e la vita secondo lo Spirito, secondo la tradizione, non solo non si contraddicono, ma sono realtà inseparabili.
Un altro punto è quello della infallibilità. Anche questo è un discorso lungo, ma vorrei fare qualche accenno. Tante cose appartenenti al diritto naturale sono anche rivelate nella Scrittura. Vediamo in tutti i dibattiti di filosofia morale come la ragione umana sia incapace di trovare una vera certezza, ma Dio offre il supplemento e il complemento della nostra capacità, rivelando di nuovo ciò che era fin dalle origini. In questo senso la Scrittura ci offre delle materie certe, che potrebbero essere anche materia di un insegnamento infallibile.
Mi sembra inoltre che questa tendenza a limitare il vero insegnamento della Chiesa soltanto alle cose infallibilmente definite, si muova su una strada sbagliata. Un mio amico molto sarcastico mi ha raccontato che ha sentito una volta un grande professore di teologia dire così: “Mai è stata definita l’esistenza di Dio, quindi siamo liberi su questo punto”. È un giuridismo assolutamente inadeguato alla organicità della dottrina della Chiesa limitarla a quanto è stato insegnato infallibilmente, e non è vero che la Chiesa ha voluto creare un tessuto organico di potere infallibile, perché tale tessuto è frutto dell’opera della rivelazione nello sviluppo concreto nella storia. In ogni caso si è un po’ dimenticato il concetto di autorità, cioè che esiste un’autorità che ha significato proprio per garantire la capacità di vivere insieme, e di vivere bene. E l’autorità ecclesiale è un’autorità con la licenza divina: anche se non sempre infallibile, è autorità nei grandi pronunciamenti, crea il tessuto della vita comune cristiana. Mi oppongo quindi a questa tendenza di ridurre il campo dell’infallibile