Brano tratto da: JOSEPH RATZINGER, Guardare Cristo, JACA BOOK, 1989, pagg. 35-39. Nella prima metà degli anni settanta, un amico del nostro gruppo fece un viaggio in Olanda, dove la Chiesa faceva sempre più parlare di sé, vista dagli uni come l’immagine e la speranza di una Chiesa migliore per il domani, dagli altri come sintomo di una decadenza che era la logica conseguenza dell’atteggiamento assunto. Con una certa curiosità aspettavamo il resoconto che il nostro amico ci fece al suo ritorno. Feci le mie riflessioni in silenzio. Riflettei anche su un’altra ipotesi. Un po’ più tardi il mio lavoro mi portò ad occuparmi del pensiero di Ernst Bloch, per il quale il “principio speranza” è la figura speculativa centrale. Secondo Bloch la speranza è l’ontologia del non ancora esistente. Una giusta filosofia non deve mirare a studiare ciò che è (sarebbe stato conservatorismo o reazione), ma a preparare ciò che ancora non è. Giacché ciò che è è degno di perire; il mondo veramente degno di essere vissuto dev’essere ancora costruito. Il compito dell’uomo creativo è dunque quello di creare il mondo giusto che ancora non esiste; per questo elevato compito però la filosofia deve svolgere una funzione decisiva: essa è il laboratorio della speranza, l’anticipazione del mondo di domani nel pensiero, anticipazione di un mondo ragionevole e umano, non più formatosi mediante il caso, ma pensato e realizzato dalla nostra ragione. Tutto questo mi venne di nuovo in mente quando esplose il dibattito a riguardo del mio Rapporto sulla fede, pubblicato nel 1985. Il grido di rivolta sollevato da questo libro senza pretese culminava nell’accusa: è un libro pessimistico. Perché racconto tutto questo? Note 1 Cfr. l’enciclica sullo Spirito Santo di papa Giovanni Paolo II “La bestemmia contro lo Spirito Santo consiste proprio nel rifiuto radicale dell’accettazione di quel perdono” (II, 6,46). 2 Cfr. F. Hartl, Der Begriff des Schoplerischen. Deutungsversuche der Dialektik durch Ernst Bloch und Franz von Baader, Frankfurt a.M. 1979; G. Gutierrez, Theologie der Befreiung, Munchen-Mainz 1982(6), specie pp. 200-207 (tr. it., Teologia della Liberazione, Queriniana, Brescia). Importanti analisi circa l’opposizione di ottimismo e speranza in J. Pieper, Uber das Ende der Zeit, Munchen 1980 (3), cfr. per es. p. 85s., dove Pieper rinvia alla tesi di J. Burckhardt, secondo cui in tutta l’Europa occidentale sussiste il conflitto tra la Weltanschauung uscita dalla Rivoluzione francese e la Chiesa, esattamente la cattolica, conflitto che Burckhardt vede tra ottimismo e pessimismo. Al riguardo Pieper: “Può in qualche modo essere vero qualificare come ottimismo la Weltanschauung del 1789 (Burckhardt vede l’ottimismo nel ‘senso di conquista’ e ‘senso di potere’); benché presumibilmente un’analisi più approfondita dovrebbe urtare nella disperazione come nella base che rende possibile questo ottimismo“.
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Poiché era un uomo leale e un preciso osservatore, egli ci parlò di tutti i fenomeni di disfacimento di cui avevamo già udito qualcosa: seminari vuoti, ordini religiosi senza vocazioni, preti e religiosi che in gruppi voltano le spalle alla loro vocazione, la scomparsa della confessione, la drammatica caduta della frequenza alla Messa e via dicendo. Naturalmente vennero descritti anche gli esperimenti e le novità, che non potevano, a dire il vero, cambiar nulla dei segni della decadenza, anzi piuttosto li confermavano.
La vera sorpresa del rendiconto fu però la valutazione conclusiva: a dispetto di tutto, una Chiesa grandiosa, perché non c’era da nessuna parte pessimismo, tutti andavano incontro al futuro pieni di ottimismo. Il fenomeno dell’ottimismo generale faceva dimenticare ogni decadenza e ogni distruzione; bastava a compensare ogni negativo.
Che cosa si sarebbe detto di un uomo di affari che scrive solo delle cifre in rosso, che, però, invece di riconoscere le sue perdite, di cercarne le ragioni e di opporvisi coraggiosamente, si raccomandava ai suoi credi tori con il solo ottimismo? Che cosa bisognava pensare della glorificazione di un ottimismo semplicemente contrario alla realtà?
Cercai di andare a fondo della questione ed esaminai diverse ipotesi.
L’ottimismo poteva essere semplicemente una copertura, dietro la quale si nascondeva proprio la disperazione che si cercava in tal modo di superare. Ma poteva trattarsi anche di peggio: questo ottimismo metodico veniva prodotto da coloro che desideravano la distruzione della vecchia Chiesa e che, senza tanto rumore con il mantello di copertura della riforma, volevano costruire una Chiesa completamente diversa, di loro gusto, che però non potevano iniziare per non scoprire troppo presto le loro intenzioni. Allora il pubblico ottimismo era una specie di tranquillante per i fedeli, allo scopo di creare il clima adatto a disfare possibilmente in pace la Chiesa e acquisire così dominio su di essa.
Il fenomeno dell’ottimismo avrebbe perciò due facce: da una parte suppone la beatitudine della fiducia, anzi la cecità dei fedeli, che si lasciano calmare da buone parole; consiste dall’altra in una consapevole strategia per un cambiamento della Chiesa in cui nessun’altra volontà superiore – volontà di Dio – ci disturba più, né inquieta più la coscienza, mentre la nostra propria volontà ha l’ultima parola.
L’ottimismo sarebbe alla fine la maniera di liberarci della pretesa, fattasi ormai ostica, del Dio vivente sulla nostra vita. Quest’ottimismo dell’orgoglio, dell’apostasia, si sarebbe servito dell’ottimismo ingenuo dell’altra parte, anzi l’avrebbe alimentato, come se quest’ottimismo altro non fosse che speranza certa del cristiano, la divina virtù della speranza, mentre era in realtà una parodia della fede e della speranza.
Era possibile che un simile ottimismo fosse semplicemente una variante della fede liberale nel progresso perenne: il surrogato borghese della speranza perduta della fede.
Giunsi infine al risultato che tutte queste componenti agivano insieme, senza che si potesse facilmente decidere quale di esse, e quando e dove, avesse il peso prevalente.
Ora, sullo sfondo delle esperienze appena raccontate, ciò che mi sorprese fu l’uso del termine “ottimismo” in questo contesto. Per Bloch (e per alcuni teologi che lo seguono) l’ottimismo è la forma e l’espressione della fede nella storia, ed è perciò doveroso per una persona che vuole servire alla liberazione, all’evocazione rivoluzionaria del mondo nuovo e dell’uomo nuovo (1). La speranza è perciò la virtù di un’ontologia di lotta, la forza dinamica della marcia verso l’utopia:
Leggendo Bloch io pensavo che 1′” ottimismo” è la virtù teologica di un Dio nuovo e di una nuova religione, la virtù della storia divinizzata, di una “storia” di Dio, dunque del grande Dio delle ideologie moderne e della loro promessa.
Questa promessa è l’utopia, da realizzarsi per mezzo della “rivoluzione”, che per sua parte rappresenta una specie di divinità mitica, per cosi dire una “figlia Dio” in rapporto con il Dio-Padre “Storia”.
Nel sistema cristiano delle virtù la disperazione, cioè la radicale opposizione verso fede e speranza, viene qualificata come peccato contro lo Spirito Santo, perché esclude il suo potere di guarire e di perdonare, e si nega cosi alla redenzione (2).
Nella nuova religione vi corrisponde il fatto che il “pessimismo” è il peccato di tutti i peccati, poiché il dubbio per l’ottimismo, per il progresso, per l’utopia è un assalto frontale allo spirito dell’età moderna, è la contestazione del suo credo fondamentale su cui si fonda la sua sicurezza, che è tuttavia di continuo minacciata per la debolezza di quella divinità illusoria che è la storia.
Da qualche parte si tentò perfino di vietarne la vendita, perché una eresia di quest’ordine di grandezze semplicemente non poteva essere tollerata. I detentori del potere d’opinione misero il libro all’indice. La nuova inquisizione fece sentire la sua forza. Venne dimostrato ancora una volta che non esiste peccato peggiore contro lo spirito dell’epoca che il diventare rei di una mancanza di ottimismo.
La domanda non era affatto: è vero o falso ciò che si afferma, le diagnosi sono giuste oppure no; ho potuto constatare che non ci si preoccupava di porsi simili questioni fuori moda. Il criterio era molto semplice: è ottimistico oppure no, e davanti a questo criterio il libro era senz’altro fallimentare.
La discussione artificialmente accesa sull’uso della parola “restaurazione”, che non aveva niente a che fare con quanto detto nel libro, era solo una parte del dibattito sull’ottimismo: sembrava in questione il dogma del progresso.
Con la collera che solo un sacrilegio può evocare si picchiava su questa negazione del Dio Storia e della sua promessa. Pensai a un parallelo in campo teologico. Il profetismo viene da molti congiunto da una parte con la “critica” (rivoluzione), dall’altra con “ottimismo” e in questa forma reso criterio centrale della distinzione fra vera e falsa teologia.
Io credo che è possibile comprendere la vera essenza della speranza cristiana e riviverla solo se si guarda in faccia alle imitazioni deformative che cercano di insinuarsi dappertutto.
La grandezza e la ragione della speranza cristiana vengono in luce solo quando ci liberiamo dal falso splendore delle sue imitazioni profane.
Prima di iniziare la riflessione positiva sull’essenza della speranza cristiana, mi sembra importante precisare e completare i risultati finora raggiunti.