Conferenza del cardinal Joseph Ratzinger alla Académie des Sciences Morales et Politiques, Parigi 1997.
[Fonte: Internationale Katholische Zeitschrift Communio 26 (1997), pp. 419-429] Subito dopo la conquista di Costantinopoli da parte dei turchi, nell’anno 1453, il cardinale Nicola Cusano scrisse un curioso libro: De pace fidei. L’impero che si stava sgretolando era sconvolto dalle lotte di religione; lo stesso cardinale aveva preso parte al tentativo, risultato vano, di una riunificazione della Chiesa d’Oriente con quella d’Occidente, e ora nuovamente l’Islam si affacciava nel campo della cristianità occidentale.
Cusano sperimentò nelle vicende del suo tempo che la pace religiosa e la pace mondiale dipendono strettamente l’una dall’altra e cercò di rispondere a tale questione con una sorta di utopia, che si proponeva di essere un concreto servizio alla pace: «Cristo come logos universale convoca un concilio celeste, perché lo scandalo della molteplicità delle religioni sulla terra è divenuto intollerabile»(1); in esso «diciassette rappresentanti delle diverse nazioni e religioni, mediante il Logos divino, saranno portati a riconoscere che nella Chiesa rappresentata da Pietro le domande religiose di tutti possono essere appagate» (2).
In tutte le dottrine sapienziali, dice qui Cristo, «non trovate un’altra fede, ma dovunque è presupposta l’unica e medesima fede». «Dio come creatore è trino e uno; come infinito non è né trino né uno né alcunché che possa essere espresso. Perché i nomi che vengono riservati a Dio sono pensati da creature umane, mentre egli in se stesso è inesprimibile e superiore a tutto quello che si può dire e asserire»(3).
1. Dall’ecumenismo dei cristiani al dialogo delle religioni
Nel frattempo questo concilio, pensato come celeste, è disceso sulla terra e, dal momento che la voce del logos viene percepita solo a stento, è inevitabilmente divenuto molto più complicato. Nel secolo XIX si era a poco a poco costituito il movimento ecumenico, inizialmente a partire dall’esperienza missionaria delle Chiese protestanti, le quali, incontrando il mondo pagano, avevano trovato un ostacolo fondamentale alla loro testimonianza nella divisione dei cristiani in numerose confessioni e avevano così riconosciuto l’unità della Chiesa come condizione essenziale della missione. In questo senso l’ecumenismo fu all’inizio un fenomeno del protestantesimo, scaturito dall’uscita dal mondo tradizionalmente cristiano(4), Il tentativo di difendere la pretesa universale del suo messaggio presupponeva che i suoi rappresentanti non si contraddicessero a vicenda e non si presentassero in gruppi frammentati, le cui specificità e i cui contrasti trovavano fondamento unicamente nella storia del mondo occidentale. L’impulso del movimento ecumenico si è poi diffuso sempre di più in tutta la cristianità. Da principio vi si accostò l’ortodossia, sia pure con un atteggiamento inizialmente riservato e prudente. L’avvicinamento della Chiesa cattolica cominciò a partire da alcuni gruppi di paesi in cui si soffriva maggiormente la divisione tra le Chiese, finché il concilio Vaticano II aprì le porte della Chiesa alla ricerca dell’unità di tutti i cristiani.
Inizialmente l’incontro con il mondo non cristiano, come si è visto, aveva agito solo come molla per la ricerca dell’unità cristiana. Era però inevitabile che le religioni mondiali venissero sempre più percepite anche nella specificità del loro messaggio religioso. Non si annunciava certo il vangelo a uomini miscredenti, che non conoscevano Dio. Era sempre meno possibile non accorgersi che ci si rivolgeva a un mondo profondamente compenetrato di convinzioni religiose, di cui era impregnato fin nelle più piccole realtà della vita quotidiana, tanto che la devozione di queste persone diventava motivo di umiliazione per la stanca fede dei cristiani. Di conseguenza non ci si poteva più accontentare di presentare i seguaci delle altre religioni solo come dei pagani o, in maniera del tutto negati va, come dei non cristiani. Si doveva imparare a conoscere la loro specificità; ci si doveva anche chiedere se si poteva semplicemente distruggere il loro mondo religioso o se non fosse possibile – se non addirittura necessario – comprenderlo dall’interno e accogliere la loro eredità nel cristianesimo.
In tal modo, a poco a poco, l’ecumenismo cristiano si è allargato al dialogo delle religioni(5). Questo dialogo non si propone semplicemente di ripercorrere il cammino della ricerca storica sulle religioni del secolo XIX e del principio del XX. In essa si era preteso di porsi al di fuori e al di sopra delle religioni, a partire da una prospettiva liberale e razionalistica, giudicando le singole religioni con la certezza della ragione illuminata. Oggi si è sempre più convinti che un simile punto prospettico non può esistere; si è capito che, per comprendere la religione, la si deve vivere dall’interno e che solo a partire da questa esperienza, necessariamente particolare e storicamente condizionata nel suo punto di partenza, si può giungere alla comprensione reciproca e, quindi, a un approfondimento e a una purificazione della religione.
2. La questione dell’unità nella diversità
Se quindi si è divenuti più prudenti nel dare giudizi definitivi, la questione dell’unità nella diversità resta tuttavia pressante. Il problema dell’ecumenismo delle religioni si pone oggi nel contesto di un mondo che, se da un lato si fa sempre più piccolo, divenendo sempre più un unico spazio comune della storia umana, dall’altro è sconvolto da guerre, diviso da tensioni crescenti tra poveri e ricchi e, infine, minacciato dall’abuso del potere della tecnica di intervenire su aspetti essenziali dell’ambiente. A partire da questa triplice minaccia si è venuta formando una nuova scala di valori morali, che cerca di definire il compito essenziale dell’umanità in questo momento della storia mediante il trinomio pace-giustizia-rispetto del creato. Religione e morale non sono identiche, ma sono comunque indissolubilmente legate tra loro.
È chiaro quindi che in quest’ ora, in cui l’umanità ha acquisito la possibilità dell’ autodistruzione e della distruzione del proprio pianeta, le religioni sono coinvolte nella comune responsabilità di vincere questa tentazione. Esse vengono valutate in modo particolare in base a questa scala di valori, che appare sempre più come il loro compito comune e, di conseguenza, anche la formula della loro conciliazione. Hans Küng, facendosi portavoce di molti, ha proposto lo slogan «Nessuna pace nel mondo senza pace tra le religioni», dichiarando in tal modo la pace religiosa, l’ecumenismo delle religioni, compito primario di tutte le comunità religiose(6).
Ora, però, la domanda che si pone è: come può accadere ciò? Come è possibile l’incontro nella diversità delle religioni e fra i contrasti che proprio oggi assumono spesso forme violente? Che tipo di unità può mai esserci? In quale misura si può almeno tentare di perseguirla? Se ci si sforza di riconoscere degli elementi di contatto nella varietà sconcertante delle religioni mondiali, si può anzitutto distinguere le religioni etniche dalle religioni universali, benché, certamente, anche le religioni etniche siano caratterizzate da modelli fondamentali comuni che, a loro volta, sono in modo diverso legati alle grandi tendenze delle religioni universali.
Di conseguenza, tra i due ambiti esiste una sorta di continuo passaggio che in questa sede non possiamo illustrare, ma che ci dà il diritto di concentrare la nostra riflessione sul tema dell’ecumenismo riferito anzitutto alle religioni universali. In esse, allo stato attuale della ricerca, possiamo distinguere due tipi fondamentali, che J. A. Cuttat ha cercato di caratterizzare con i concetti di «interiorità» e «trascendenza»(7) e che qui, a partire dal loro centro concreto e anche dall’atto centrale del loro culto, mi permetto di contrapporre, certamente con una qualche semplificazione, come tipo teistico e tipo mistico. Per l’ecumenismo delle religioni, se queste diagnosi sono corrette, si offrono due vie: si può tentare di accogliere il modello teistico in quello mistico, considerando quindi il modello mistico come il più ampio, in cui anche l’eredità teistica può trovare posto, oppure si può tentare di percorrere la via opposta.
Oggi è entrata in campo una terza alternativa, che vorrei definire «pragmatica»: tutte le religioni dovrebbero rinunciare all’interminabile controversia sulla verità e riconoscere la loro vera essenza, la loro effettiva finalità spirituale, nell’ortoprassi, la cui via, ancora una volta, appare chiaramente tracciata dalle sfide del tempo presente. L’ortoprassi potrebbe in fondo consistere solo nel servizio alla pace, alla giustizia e alla salvaguardia del creato. Le religioni potrebbero conservare tutti i loro credi, forme e riti, ma finalizzati a questa giusta prassi: «Le riconoscerete dai loro frutti». Potrebbero quindi tutte mantenere le proprie consuetudini; ogni controversia diverrebbe superflua ed esse diventerebbero tutte una cosa sola nella modalità richiesta dalle sfide del momento.
3. Grandezza e limiti delle religioni mistiche
Ora desidero esaminare brevemente le tre vie appena delineate e, trattando la via teistica, riflettere in modo particolare sulla questione del rapporto tra monoteismo cristiano e giudaico. È chiaro che per esigenze di concisione sono costretto a tralasciare il problema della terza grande forma di religione monoteistica, l’islam. In un tempo in cui abbiamo imparato a dubitare della conoscibilità del trascendente e in cui, per di più, suscita timore la potenziale intolleranza delle pretese di verità in questo campo, il futuro sembra appartenere solo alla religione mistica. Solo in questa il divieto delle immagini sembra essere preso veramente sul serio, mentre per esempio Panikkar ritiene di dover classificare in fondo come ancora idolatrica l’insistenza di Israele su un unico Dio personale, chiamato per nome, malgrado la mancanza di immagini (8).
Religione non più definita dai contenuti oggettivi
Al contrario, in una teologia rigorosamente apofatica non si avanza nessuna pretesa di conoscenza riguardo al divino; la religione non è più definita sul piano positivo e contenutistico e, dunque, neppure su quello istituzionale e sacrale. Essa è integralmente ricompresa nell’esperienza mistica e così resta a priori escluso il conflitto con la ragione scientifica. La New Age è per così dire la proclamazione dell’età della religione mistica, che è razionale proprio in quanto non avanza più alcuna pretesa di verità e dunque per sua natura è tollerante; anche se nel contempo garantisce all’uomo la rottura dei limiti dell’ essere di cui egli ha bisogno per poter vivere e accettare la propria finitezza.
Il divino, personale o impersonale
Se questa è la via giusta, io dovrei dare all’ecumenismo la forma di una comprensione universale, riducendo gli assiomi positivi, quelli cioè che esigono delle verità contenutistiche, e riducendo nello stesso tempo le strutture sacrali a strutture di carattere funzionale. Con ciò non si pretende affatto la totale rinuncia alle forme teistiche fin qui esistite. Sembra piuttosto che si vada sempre più sviluppando un orientamento a considerare ambedue le maniere di vedere il divino compatibili e in fondo equivalenti. Il problema, in sostanza, non è se il divino debba essere concepito in modo personale o impersonale. Il Dio che parla e la silenziosa profondità dell’essere sarebbero alla fin fine solo due modi differenti di pensare l’ineffabile al di là di tutte le categorie concettuali. L’imperativo centrale di Israele: «Ascolta, Israele, il tuo Dio è un Dio vivente», che di fatto resta costitutivo anche per cristianesimo e islam, perde così i suoi contorni. In definitiva sarebbe irrilevante il fatto che uno si sottometta al Dio che parla o si abbandoni alla silenziosa profondità dell’essere. L’adorazione che il Dio di Israele pretende e lo svuotamento della coscienza, che dimentica il proprio io e si lascia dissolvere nell’infinito, potrebbero essere considerati come varianti di un unico e medesimo atteggiamento di fronte all’infinito.
Il cosmo non ha più nulla a che fare con Dio
Così tutto sembra risolto nel modo migliore possibile: le forme sviluppate possono sopravvivere, ma riconoscono la relatività di tutte le strutture esteriori e sono unite nella ricerca della profondità dell’essere, in un’interiorizzazione che lascia dietro di sé anche il proprio io e dona il consolante contatto con l’ineffabile, rafforzati dal quale usciamo poi incontro alla realtà e al mondo di ogni giorno.
Senza dubbio quanto detto può contribuire a un approfondimento delle religioni teistiche, sul cui percorso la corrente mistica e anche la teologia apofatica non sono mai mancate del tutto (9). Infatti si è sempre insegnato che tutto ciò che si dice e si può dire in definitiva rispecchia solo lontanamente l’ineffabile e che la dissomiglianza con ciò che noi possiamo immaginare e pensare resta sempre più grande di ogni somiglianza (10). Per questo l’adorazione ha sempre a che fare con l’interiorizzazione e l’interiorizzazione con il superamento di sé. Tuttavia l’identificazione delle due vie e la loro riduzione ultima alla via mistica non sono accettabili, dal momento che, in tal caso, il mondo sensibile finirebbe per uscire del tutto dalla relazione con il divino. Il concetto di creazione non sarebbe allora più utilizzabile. Il cosmo, che non è più creazione, non ha più nulla a che fare con Dio.
La salvezza si trova al di fuori del mondo
La stessa cosa vale necessariamente per la storia. Dio non entra più nel mondo; quest’ultimo diventa, in senso proprio, a-teo, privo di Dio. La religione non può più produrre alcuna comunione di pensiero e di volontà; diventa, per così dire, una terapia individuale: la salvezza si trova al di fuori del mondo; per operare in esso non ci viene data altra indicazione al di fuori della forza che si può accrescere ritirandosi regolarmente nella dimensione spirituale. Ma questa forza, come tale, non ha per noi alcun messaggio chiaramente definibile. Nel nostro agire all’interno del mondo restiamo dunque abbandonati a noi stessi.
I tentativi contemporanei di ricomprensione dell’etica prendono facilmente le mosse da questa concezione e la stessa teologia morale ha cominciato a confrontarsi con questo punto di partenza. In tal modo, però, l’ etica resta alla fin fine una nostra costruzione, l’ethos perde il suo carattere vincolante e obbedisce, in maniera più o meno esitante, ai nostri interessi.
La fede in Dio non può rinunciare a una verità definibile nei suoi contenuti
A questo punto risulterà forse chiaro che il modello teistico ha certamente più elementi in comune con quello mistico di quanto si potesse inizialmente pensare, ma che non può essere ricondotto a quest’ultimo. Infatti la fede nell’unico Dio implica necessariamente il riconoscimento della volontà di Dio: l’adorazione di Dio non è semplicemente un’immersione, bensì ci restituisce noi stessi e ci impone l’impegno nella vita quotidiana, reclama tutte le energie del nostro intelletto, del nostro sentimento e della nostra volontà. La fede in Dio non può rinunciare alla verità, a una verità definibile nei suoi contenuti, malgrado tutta l’importanza dell’elemento apofatico.
4. Il modello pragmatico
Ma il modello pragmatico, di cui abbiamo parlato in precedenza, non è una soluzione altrettanto adeguata alle esigenze del mondo moderno e allo status reale delle religioni?
Un corto circuito
Basta poco per vedere che questo è un corto circuito. Ovviamente l’impegno per la pace, la giustizia e il rispetto del creato è della massima importanza, e la religione dovrebbe senza dubbio fornire uno stimolo fondamentale in tale direzione. Ma le religioni non possiedono una conoscenza a priori di ciò che hic et nunc è utile alla pace, di come sia possibile costruire la giustizia sociale negli Stati e fra gli Stati, di come si possa tutelare nel modo migliore la creazione, custodendola responsabilmente secondo l’intenzione del creatore. Tutto ciò deve essere elaborato razionalmente di volta in volta.
Inoltre occorre tener conto del libero confronto tra opinioni differenti e del rispetto di percorsi diversi. Dove questo pluralismo, spesso non superabile, dei percorsi e il faticoso confronto razionale vengono scavalcati da un moralismo con motivazioni religiose e una sola via è dichiarata giusta, la religione si trasforma in dittatura ideologica, il cui furore totalitario non costruisce la pace, ma la distrugge. La religione non può essere subordinata a una finalità pratico-politica, che poi diventa il suo idolo. L’uomo asserve Dio ai propri fini e in tal modo degrada Dio e se stesso.
La più sottile tentazione luciferina
A tale proposito circa quarant’ anni fa J. A. Cuttat scrisse un’osservazione molto saggia: «Una cosa è cercare di rendere migliore e più felice l’umanità mediante l’unificazione delle religioni. Altra cosa è, invece, invocare ardentemente l’unione di tutti gli uomini nell’amore a uno stesso Dio. E la prima è forse la più sottile tentazione luciferina, che mira a far naufragare la seconda»(11).
Questo rifiuto di trasformare la religione in moralismo politico non cambia naturalmente il fatto che l’educazione alla pace, alla giustizia e all’ amore per il Creatore e il creato restano tra i compiti essenziali della fede cristiana e di ogni religione, e a tal proposito si può citare opportunamente l’affermazione evangelica: dai loro frutti li riconoscerete.
Torniamo ora di nuovo alla via teistica e alle sue possibilità di conciliare le religioni. Come sappiamo, nella storia il teismo assume tre configurazioni principali: ebraismo, cristianesimo e islam. Anzitutto è importante scandagliare le possibilità di conciliazione dei tre grandi monoteismi, prima di cercare di metterli a confronto con la via mistica. Come ho già detto, mi limito qui alla prima divisione nel mondo monoteistico, quella tra ebraismo e cristianesimo, il cui superamento è fondamentale anche per il rapporto di entrambi con l’islam. Naturalmente posso solo tentare un accenno molto modesto a un problema di tale portata. In proposito desidero presentare due riflessioni.
Mediante Gesù il Dio di Israele è divenuto il Dio di tutti i popoli
Al lettore medio verrà in mente il luogo comune secondo cui la Bibbia degli ebrei, 1’«Antico Testamento», accomuna ebrei e cristiani, mentre la fede in Gesù Cristo come figlio di Dio e redentore li separa. Tuttavia si può facilmente vedere quanto sia superficiale una simile distinzione tra ciò che unisce e ciò che separa. Infatti va detto anzitutto che mediante Cristo la Bibbia di Israele è giunta ai non ebrei ed è divenuta anche la loro Bibbia.
Quando la lettera agli Efesini dice che Cristo ha abbattuto il muro che divideva i giudei dalle altre religioni del mondo e ha ristabilito l’unità, non si tratta di vuota retorica teologica, ma di una constatazione del tutto empirica, anche se nel dato empirico non può essere compresa l’intera portata dell’affermazione teologica. Infatti mediante l’incontro con Gesù di Nazareth il Dio di Israele è divenuto il Dio di tutti i popoli della terra. Attraverso di lui si è di fatto adempiuta la promessa secondo cui i popoli avrebbero adorato il Dio di Israele come l’unico Dio, secondo cui il «monte del Signore» sarebbe stato innalzato al di sopra di tutti gli altri monti.
Gesù: figlio e servo di Dio
Se Israele non può vedere in Gesù il figlio di Dio, come i cristiani, non gli è però assolutamente impossibile riconoscere in lui il servo di Dio, che porta ai popoli la luce del suo Dio. E, viceversa, anche se i cristiani desiderano che Israele possa un giorno riconoscere Cristo come il figlio di Dio, superando così la frattura che ancora li divide, essi dovrebbero comunque riconoscere il piano di Dio, che ha affidato chiaramente a Israele una sua missione nel «tempo dei pagani». I Padri la sintetizzano nel modo seguente: Israele deve restare di fronte a noi come il primo possessore della sacra Scrittura, per rendere proprio così testimonianza davanti al mondo.
Ma che cosa dice questa testimonianza? Arriviamo con ciò alla seconda riflessione che desidero svolgere. Penso si possa dire che per la fede di Israele sono essenziali due cose.
Fede, speranza, amore e le tre dimensioni del tempo
Anzitutto c’è la Torah, il vincolo alla volontà di Dio, e quindi l’instaurazione della sua signoria, del suo regno in questo mondo.
E c’è, d’altro canto, lo sguardo della speranza, l’attesa del Messia – l’ attesa, anzi, la certezza – che Dio stesso entrerà in questa storia e realizzerà la giustizia, alla quale noi possiamo solo avvicinarci in forme molto imperfette.
Si legano così le tre dimensioni del tempo: l’obbedienza alla volontà di Dio si rifà a una parola enunciata, che ora sta nella storia e che vuole essere resa ogni volta presente nell’obbedienza. Questa – un frammento della giustizia di Dio reso presente nel tempo – è un andare incontro al futuro, in cui Dio raccoglierà i frammenti del tempo e li ingloberà tutti nella sua giustizia.
Questa immagine fondamentale non è abbandonata nel cristianesimo. La triade di fede, speranza e amore corrisponde sotto certi aspetti alle tre dimensioni del tempo: l’obbedienza della fede accoglie la parola che viene dall’eternità ed è mandata nella storia, la trasforma in amore, in presente, e apre così la porta della speranza.
Ciò che è peculiare della fede cristiana è che tutte e tre le dimensioni sono unite e sostenute nella figura di Cristo, mediante la quale esse verranno mantenute insieme anche nell’eternità. In lui coesistono tempo ed eternità ed è colmato l’abisso infinito tra Dio e l’uomo. Cristo infatti è colui che è venuto, ma che non ha mai cessato di essere presso il Padre; egli è presente nella comunità dei credenti, e tuttavia, al tempo stesso, è ancora colui che viene.
Attesa messianica della Chiesa
Anche la Chiesa attende il Messia, che già conosce e a cui per prima egli manifesterà la sua gloria. Obbedienza e promessa sono una cosa sola anche per la fede cristiana. Cristo è per i cristiani il Sinai presente, la Torah vivente, che ci impegna con la sua chiamata vincolante e, d’altra parte, ci coinvolge nel vasto spazio dell’amore e delle sue possibilità inesauribili. Egli è quindi la garanzia della speranza nel Dio che non lascia cadere la storia nell’insussistenza dell’effimero, ma la sostiene e la conduce alla meta.
Anche qui è dunque vero che la figura di Cristo congiunge e divide allo stesso tempo Israele e la Chiesa: non è in nostro potere superare questa divisione, ma essa ci tiene insieme sulla via di colui che viene e non può essere quindi sentita come motivo di inimicizia.
6. La fede cristiana e le religioni mistiche
Arriviamo così alla domanda finora rinviata, che concerne molto concretamente la posizione del cristianesimo nel dialogo fra le religioni: la religione teistica, dogmatica e gerarchicamente ordinata, è di necessità intollerante? La fede nella verità formulata nel dogma rende incapaci di dialogo? L’attitudine alla pace è legata alla rinuncia della verità?
La dimensione mistica della fede cristiana
Desidero rispondere a queste domande con due osservazioni. Anzitutto bisogna ricordare ancora una volta che la fede cristiana ha in se una dimensione mistica e apofatica. Il nuovo incontro con le religioni dell’ Asia sarà importante anche per i cristiani per il fatto che li richiamerà a questo aspetto della loro fede esalteranno certi irrigidimenti unilaterali della positività cristiana.
A ciò si può obiettare: la dottrina trinitaria e la fede nell’incarnazione non sono allora forme così radicali di tale positività che Dio è divenuto in esse formalmente percettibile, anzi comprensibile, e che il mistero di Dio è racchiuso in forme stabilite e in una figura storicamente databile?
A questo proposito andrebbe ricordata la disputa tra Gregorio di Nissa ed Eunomio: Eunomio sosteneva la piena comprensibilità di Dio data con l’atto della rivelazione, mentre Gregorio interpretava la teologia trinitaria e la cristologia come teologia mistica, che invita a un cammino incessante verso Dio, che è sempre infinitamente più grande(12).
La nube del mistero
In effetti la teologia trinitaria è apofatica in quanto cancella il concetto elementare di persona, derivante dall’ esperienza umana, mentre afferma il Dio che parla, il Dio-Logos, ma che, nel contempo, mantiene il silenzio più grande, da cui viene il Logos e a cui egli ci rinvia.
Qualcosa di simile si può osservare per l’incarnazione. Sì, Dio si fa del tutto concreto, tangibile nella storia. Si avvicina corporalmente all’uomo. Ma proprio questo Dio divenuto tangibile è del tutto misterioso. Il suo abbassarsi, liberamente scelto, la sua chenosi, è, per così dire, in un modo nuovo la nube del mistero, in cui egli si nasconde e allo stesso tempo si mostra(13). Infatti, quale paradosso potrebbe essere maggiore di questo, di un Dio che è vulnerabile e può essere ucciso? Il concetto di Verbo incarnato e crocefisso supera incommensurabilmente tutte le parole umane; proprio per questo la chenosi di Dio è il luogo in cui possono incontrarsi le religioni, senza pretese di dominio.
Il Socrate platonico, particolarmente nell’Apologia e nel Critone, rinvia al nesso esistente tra verità e condizione inerme, tra verità e povertà. Socrate è credibile perché il suo prendere partito per «il dio» non gli procura né cariche né beni materiali, ma, al contrario, lo condanna alla povertà e, infine, al ruolo di imputato (14). La povertà è la forma autenticamente divina in cui si manifesta la verità: per questo essa può esigere obbedienza senza alienazione.
Resta la domanda: che significa questo concretamente? Che cosa ci si può aspettare da una simile lettura del cristianesimo per il dialogo interreligioso? Il modello teistico dell’incarnazione porta più in là rispetto a quello mistico e a quello pragmatico?
Ebbene, diciamolo subito francamente: chi volesse puntare all’unificazione delle religioni come risultato del dialogo interreligioso, può solo restarne deluso. Nelle nostre circostanze storiche una cosa simile è difficilmente possibile e forse non è nemmeno auspicabile.
E allora? Desidero fare tre osservazioni.
Nessuna rinuncia alla verità
La prima: l’incontro tra le religioni non può avvenire nella rinuncia alla verità, ma è possibile solo mediante il suo approfondimento. Lo scetticismo non unisce. E nemmeno il puro pragmatismo unisce. Ambedue le posizioni non fanno che aprire la porta alle ideologie che, poi, si presentano in maniera ancor più sicura di sé.
La rinuncia alla verità e alla convinzione non innalza l’uomo, ma lo consegna al calcolo dell’utile, privandolo della sua grandezza.
Vanno incoraggiati invece il rispetto profondo per la fede dell’altro e la disponibilità a cercare, in ciò che incontriamo come estraneo, la verità che ci può concernere e può correggerci e farci progredire. Va incoraggiata la disponibilità a cercare, dietro alle manifestazioni che ci possono sembrare strane, il significato più profondo che si cela in esse.
Va inoltre incoraggiata la disponibilità ad abbandonare la ristrettezza del nostro modo di intendere la verità, così da comprendere meglio ciò che ci appartiene, imparando a capire l’ altro e lasciandoci così guidare sulla strada del Dio più grande – nella convinzione di non possedere pienamente la verità su Dio e di essere sempre dinanzi a essa persone che imparano, pellegrini alla sua ricerca, su una strada che mai avrà fine.
Critica anche alla propria religione
Seconda osservazione: se le cose stanno così, se bisogna cioè cercare sempre il positivo anche nell’altro e se, quindi, anche l’ altro deve diventare per me un aiuto sulla strada verso la verità, non può e non deve mancare però l’elemento critico. La religione custodisce la preziosa perla della verità, ma al tempo stesso la occulta ed è sempre esposta al rischio di perdere la propria natura. La religione può ammalarsi e divenire un fenomeno distruttivo. Essa può e deve portare alla verità, ma può anche allontanare l’uomo da essa. La critica della religione presente nell’ Antico Testamento oggi non ha affatto perso la sua fondatezza. Può risultare relativamente facile porsi in un atteggiamento critico nei confronti di un’altra religione, ma dobbiamo anche essere pronti ad accogliere critiche rivolte a noi stessi, alla nostra stessa religione.
Karl Barth ha operato una distinzione nel cristianesimo tra religione e fede. Ha avuto torto a voler separare del tutto queste due realtà, considerando positivamente la fede e negativamente la religione. La fede senza la religione è irreale, essa implica la religione, e la fede cristiana deve, per sua natura, vivere come religione. Ma ha avuto ragione ad affermare che anche fra i cristiani la religione può corrompersi e trasformarsi in superstizione, ad affermare, cioè, che la religione concreta, in cui la fede viene vissuta, deve essere continuamente purificata a partire dalla verità che si manifesta nella fede e che, d’altra parte, nel dialogo fa nuovamente riconoscere il proprio mistero e la propria infinitezza.
Annuncio come processo dia logico
Terza osservazione: significa questo che la missione deve venir meno ed essere sostituita dal dialogo, in cui ciò che conta non è la verità ma l’aiutarsi reciprocamente a diventare migliori cristiani, ebrei, musulmani, induisti o buddhisti? Rispondo di no. Questa sarebbe infatti la completa assenza di convinzioni, in cui – con il pretesto di convalidare ciò che ciascuno ha di meglio – non prenderemmo sul serio né noi né gli altri e rinunceremmo definitivamente alla verità. La risposta mi sembra essere piuttosto che missione e dialogo non devono più essere forme contrapposte, ma compenetrarsi reciprocamente(15).
Il dialogo non è un intrattenimento senza scopo, ma ha di mira la persuasione, la scoperta della verità, altrimenti è senza valore. Dall’ altro canto la missione in futuro non può più essere compiuta come se si comunicasse con un soggetto fino a quel momento privo di qualunque conoscenza di Dio, a cui deve credere.
Questa è certamente un’eventualità reale e lo sarà forse sempre di più in un mondo che in molte parti sta diventando ateo. Ma nel mondo delle religioni incontriamo uomini che attraverso la loro religione hanno una percezione di Dio e cercano di vivere in rapporto con lui.
Per questo l’annuncio deve necessariamente diventare un processo dialogico. All’altro non si dice qualcosa di completamente ignoto, ma si dischiude la profondità nascosta di ciò che egli ha già sperimentato nella sua fede.
E d’altra parte colui che annuncia non è semplicemente uno che dà, ma è anche uno che riceve. In questo senso nel dialogo interreligioso dovrebbe avvenire quello che Cusano ha espresso come desiderio e speranza nella sua visione del concilio celeste: il dialogo tra le religioni dovrebbe diventare sempre più un ascolto del Verbo, che ci indica l’unità in mezzo alle nostre divisioni e contraddizioni.
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1. H.U. von Balthasar, Solo l’amore è credibile, Torino 1965, p. 20.
2. R Haubst, «Nikolaus von Kues”, in Lexikon für Theologie und Kirche,VII, coll. 988- 991, citaz. a col. 990.
3. De pace fidei 7,11, 16, 10, 62, in Opera omnia, voI. VII, Meiner 1959, cit. da Balthasar, op. cit., p.21.
4. Cfr. R. Rouse – S. Ch. Neill, Storia del movimento ecumenico dal 1517 al 1948, 3 voll., Bologna 1973-1982; H. J. Urban – H. Wagner (a cura di), Handbuch der Ökumenik, vol. II, Paderborn 1986.
5. Cfr. K. Reiser, Ökumene im Übergang. Paradigmenwechsel in der ökumenischen Bewegung?, München 1989.
6 Sulla problematica dell’«ethos mondiale», che Küng postula in questo contesto, cfr. R Spaemann, Weltethos als «Projekt», in Merkur. Deutsche Zeitschrift für europäisches Denken, n. 570-571, pp. 893-904.
7 J.-A. Cuttat, L’esperienza cristiana può assumere la spiritualità orientale?, in La mistica e le mistiche, a cura di A. Ravier, Cinisello B. (Milano) 1996; Id., Begegnung der Religionen, Einsiedeln 1956. Su tutta la questione del dialogo tra le religioni cfr. H. Bürkle, L’uomo alla ricerca di Dio. La domanda delle religioni, Milano 1998. Utile anche O. Lacombe, L’élan spirituel de l’hindouisme, Paris 1986.
8 R Panikkar, Trinità ed esperienza religiosa dell’uomo, Assisi 1989, pp. 37-47.
9 Cfr. L. Bouyer, Mysterion. Du mystère à la mystique, Paris 1986.
10 Così il IV concilio Lateranense ne1 1215: «quia inter creatorem et creaturam non potest similitudo notari, quin inter eos maior sit dissimilitudo notanda» (DS 806).
11 Begegnung der Religionen, cit., p. 84.
12 Cfr., tra gli ultimi, F. Dünzl, Braut und Bräutigam, Die Auslegung des Canticum durch Gregor von Nyssa, Tübingen 1993; L. Eouyer, op. cit. pp, 225ss; sempre importante resta H. U. von Ealthasar, Présence et pensée, Essai sur lo philosophie religieuse de Grégoire de Nysse, Paris 1942.
13 Cfr, B. Stubenrauch, Dialogisches Dogma, Der christliche Auftrag zur interreligiösen Begegnung, Freiburg 1995, soprattutto alle pp. 84-96,
14 Cfr. per esempio Apologia 31c: «E certo io credo di potervi portare un testimone sicuro della verità di quello che dico: la mia povertà». Cfr. Critone 48 c-d.
15 Per una corretta comprensione della missione sono fondamentali H. Bürkle, Missionstheologie, Stuttgart 1979; P. Beyerhaus, Er sandte sein Wort. Theologie der christlichen Mission, vol. I.: Die Bibel in der Mission, Wuppertal 1996. Importanti spunti offre R. Spaemann, Ist eine nicht-missionarische Praxis universalistischer Religionen möglich?, in Theorie und Praxis. Festschrift N. Lobkowicz zum 65. Geburstag, Berlin 1996, pp. 41-48