Libertà e religione nell’identità dell’Europa

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Il 20 settembre del 2002 il cardinale Joseph Ratzinger ricevette il premio Liberal in occasione delle “Giornate internazionali del pensiero filosofico” svoltesi a Trieste sul tema: “Le due libertà: Parigi o Filadelfia?”. Questo è il testo del discorso che egli pronunciò in quell’occasione.


[fonte: http://www.liberalfondazione.it/ratzi1.htm ]

Per i politici di ogni partito è oggi ovvio promettere cambiamenti – naturalmente in meglio. Mentre è attualmente in ribasso il successo una volta mitico della parola rivoluzione, tanto più vengono richieste e promesse decise riforme di ampia portata. Si dovrebbe pertanto concludere che nella società moderna domina un profondo senso di insoddisfazione e questo proprio laddove benessere e libertà hanno raggiunto un livello finora sconosciuto. Il mondo viene sentito come difficilmente sopportabile, deve diventare migliore, e realizzare questo sembra essere il compito della politica. Poiché dunque secondo l’opinione comune il miglioramento del mondo, l’edificazione di un mondo nuovo costituisce il compito essenziale della politica, si può comprendere anche perché la parola «conservatore» è divenuta sospetta e difficilmente qualcuno vuole essere considerato come conservatore: si tratta infatti, così sembra, non di conservare la condizione attuale, ma di superarla.
Con questo orientamento di fondo la concezione moderna della politica, anzi, della vita in questo mondo si colloca decisamente in evidente contrapposizione con le visioni di periodi antecedenti, per i quali valeva quale grande compito dell’agire politico proprio la conservazione e la difesa dell’esistente di fronte alla sua minaccia. Qui può essere chiarificatrice una piccola osservazione linguistica. Quando il cristianesimo cercò nel mondo romano una parola, con la quale potesse esprimere, in modo sintetico e comprensibile per tutti, cosa significava Gesù Cristo per loro, ci si imbatté nella parola Conservator, con la quale era descritto a Roma il compito essenziale e il servizio più elevato, che era necessario rendere all’umanità. Ma proprio questo titolo i cristiani non poterono e non vollero trasferire sul loro redentore; non potevano proprio tradurre in tal modo la parola Messia-Cristo, il compito del salvatore del mondo. Dal punto di vista dell’impero romano doveva in realtà apparire come il più importante compito quello di conservare la situazione dell’impero contro tutte le sue minacce interne ed esterne, poiché questo impero incarnava uno spazio di pace e di diritto, nel quale gli uomini potevano vivere in sicurezza e dignità. Di fatto i cristiani – già anche la generazione apostolica – hanno saputo apprezzare questa garanzia di diritto e di pace che l’impero romano offriva. Ai padri della Chiesa davanti al caos minacciante, che si annunciava con le invasioni di altri popoli, interessava certamente il mantenimento dell’impero, delle sue garanzie giuridiche, del suo ordinamento di pace. Nondimeno i cristiani non potevano semplicemente volere che tutto rimanesse come era; l’Apocalisse, che certamente con la sua visione dell’impero si colloca al margine del Nuovo Testamento, dimostrava chiaramente per tutti che vi era anche qualcosa che non poteva essere conservato, ma doveva essere cambiato. Che Cristo non potesse essere designato come Conservator, ma come Salvator, non aveva certamente alcun significato politico-rivoluzionario, ma indicava nondimeno i limiti della pura conservazione e rinviava a una dimensione dell’esistenza umana, che va al di là delle funzioni di pace e di ordine proprie della politica.
Cerchiamo di approfondire un poco questo episodio particolare di una forma della comprensione esistenziale del compito della politica. Dietro l’alternativa, che si era a noi mostrata finora in modo piuttosto indistinto nella contrapposizione fra il titolo di Conservator e di Salvator, si evidenziano in realtà due diverse visioni di ciò che l’agire politico ed etico deve e può realizzare, in cui non solo politica e morale, ma anche politica, religione e morale appaiono reciprocamente intrecciate in diverse modalità. Da una parte vi è la visione statica, orientata alla conservazione, che forse si manifesta nel modo più evidente nell’universalismo cinese: l’ordine del cielo, eternamente eguale, offre il suo criterio anche all’agire terreno. È il Tao, la legge dell’essere e della realtà, che gli uomini devono riconoscere e riprendere nell’agire. Il Tao è legge sia cosmica che morale. Garantisce l’armonia di cielo e terra e così anche l’armonia della vita politica e sociale. Disordine, turbamento della pace, caos insorgono quando l’uomo si rivolge contro il Tao, vive ignorandolo o contro di esso. Allora contro tali turbamenti e devastazioni della vita comune deve essere restaurato il Tao e così il mondo reso nuovamente vivibile. Tutto dipende dalla conservazione dell’ordine durevole o dal ritorno a esso, qualora fosse stato abbandonato. Qualcosa di analogo è espresso nel concetto indiano del Dharma, che significa l’ordine tanto cosmico che etico e sociale, al quale l’uomo deve adeguarsi, perché la vita si sviluppi armonicamente. Il buddismo ha relativizzato questa visione insieme cosmica, politica e religiosa, in quanto ha spiegato tutto quanto il mondo come un ciclo di sofferenze; la salvezza non va cercata nel cosmo, ma nell’uscire da esso. Ma non ha creato nessuna nuova visione politica, in quanto la ricerca della salvezza è concepita in modo non mondano – come orientamento al Nirvana; per il mondo in quanto tale non vengono proposti nuovi modelli.
Diversamente la fede d’Israele. Anch’essa in realtà con l’alleanza stretta da Dio con Noè conosce qualcosa come un ordine cosmico e la promessa della sua stabilità. Ma per la fede dello stesso Israele l’orientamento verso il futuro diventa sempre più evidente. Non l’eternamente immobile, l’oggi sempre uguale a se stesso, ma il domani, il futuro non ancora presente appare come il luogo della salvezza. Il libro di Daniele, la cui redazione si colloca per altro nel corso del Secondo secolo avanti Cristo, offre due grandi visioni storico-teologiche, che divennero di enorme significato per l’ulteriore sviluppo del pensiero politico e religioso. Nel secondo capitolo si trova la visione della statua, che è costituita in parte d’oro, in parte d’argento, in parte di ferro e infine anche di argilla. Questi quattro elementi indicano una successione di quattro regni. Alla fine tutti vengono distrutti da una pietra che si stacca da una montagna senza partecipazione di mano d’uomo e che riduce il tutto in polvere, così che il vento ne porta via i resti e di essi non ne rimane più alcuna traccia. La pietra invece diventa una grande montagna e riempie tutta quanta la terra – simbolo di un regno, che il Dio del cielo e della terra erigerà e che non verrà meno per l’eternità (2,44). Nel settimo capitolo del medesimo libro appare con un simbolismo forse ancora più impressionante la successione dei regni come il susseguirsi di quattro belve, sulle quali alla fine Dio – presentato come «vegliardo» – esercita un giudizio. Le quattro belve – i grandi imperi della storia del mondo – erano salite dal mare, che rappresenta il simbolo della potenza di minaccia contro la vita per mezzo della morte e dei suoi poteri; dopo il giudizio tuttavia giunge dal cielo l’uomo («un figlio d’uomo»), e gli vengono consegnati tutti i popoli, le nazioni e le lingue per un regno, che è eterno, intramontabile e che mai passerà.
Mentre nelle concezioni del Tao e del Dharma gli ordinamenti eterni del cosmo hanno un ruolo, l’idea di «storia» quindi non appare affatto, qui ora la «storia» è concepita come una realtà specifica, non riconducibile al cosmo, e con questa realtà antropologica e dinamica precedentemente non avvertita si inaugura una visione totalmente diversa. È evidente che una tale rappresentazione di una successione storica di regni, che sono belve voraci in forme sempre più spaventose, non poteva formarsi in uno dei popoli dominatori, ma presuppone quale suo supporto sociologico un popolo che ha coscienza di essere esso stesso minacciato dalla voracità di queste belve e ha anche sperimentato un susseguirsi di potenze che gli hanno conteso il diritto all’esistenza. È la visione degli oppressi, che guardano a una svolta della storia e non possono essere interessati alla conservazione dell’esistente. Nella visione di Daniele la svolta della storia si realizza non per un’azione politica o militare – a questo fine mancano semplicemente le forze necessarie. Essa subentra solo per un intervento di Dio: la pietra, che distrugge i regni, si stacca da una montagna «non per mano di uomo» (2,34). I Padri della Chiesa videro qui un misterioso preannuncio della nascita di Gesù dalla vergine, solo per la potenza di Dio; in Cristo essi vedono la pietra, che alla fine diventa montagna e riempie la terra. Nuovo rispetto alle visioni cosmiche, nelle quali semplicemente il Tao o il Dharma stesso si presentano come la potenza del divino, come il «divino», è dunque non solo l’apparire della storia non riducibile al cosmo, ma questa terza realtà e allo stesso tempo prima: un Dio che agisce, al quale si rivolge la speranza degli oppressi. Ma già con i Maccabei, che sono da collocare all’incirca nella stessa epoca delle visioni di Daniele, anche l’uomo stesso deve prendere in mano la causa di Dio con un’azione politica e militare; in alcune parti della letteratura di Qumran la fusione di speranza teologica e di azione propriamente umana diventa ancora più evidente. Infine la lotta di Bar Kocheba ha il senso di una chiara politicizzazione del messianismo: Dio si serve per la svolta di un «Messia», che per incarico e con l’autorità di Dio introduce la novità per mezzo di un’azione politica e militare.
Il Sacrum imperium dei cristiani sia nella sua variante bizantina che in quella latina non ha potuto né voluto riprendere tali concezioni, tanto più in quanto impegnato nuovamente nella conservazione dell’ordine mondiale fondato ora cristianamente, con la convinzione per altro che si era nella sesta epoca della storia, nell’età della vecchiaia e poi sarebbe venuto l’altro mondo, che come ottavo giorno di Dio già correva parallelamente alla storia e quindi sarebbe a questa definitivamente subentrato. In realtà l’apocalittica – come si definisce la corrente della speranza critica della storia, al cui inizio sta il libro di Daniele – non è mai del tutto scomparsa. Essa emerge nuovamente con crescente virulenza a partire dall’illuminismo e diviene ora a partire dal Diciannovesimo secolo in forma secolarizzata e in variazioni contrastanti, la visione politica dominante. La sua forma radicale si trova nel marxismo, che si ricollega a Daniele in quanto valuta negativamente tutta la storia precedente come storia di oppressione e inoltre presuppone come supporto sociologico la classe degli sfruttati, degli operai innanzitutto privati di ogni diritto e dei contadini dipendenti. Con un capovolgimento sorprendente, sui motivi del quale non si è ancora riflettuto abbastanza, è però poi divenuto sempre più la religione degli intellettuali, mentre i lavoratori erano giunti per mezzo di riforme a diritti che rendevano per essi superflua la rivoluzione – la grande evasione dall’attuale forma storica. Per essi non era più necessaria la pietra che distruggeva i regni: puntavano piuttosto sull’altra figura di Daniele, quella del leone, che fu messo sui due piedi come un uomo e al quale fu dato un cuore di uomo (7,4). Ma dobbiamo forse esaminare ancora un poco più da vicino la fisionomia del nuovo messianismo secolare, come esso si è manifestato nel marxismo, perché esso si aggira ancora come uno spettro in forme diverse nelle anime di molti. Il fondamento di questa nuova concezione della storia è costituito da una parte dalla teoria dell’evoluzione trasferita sulla storia, dall’altra – non senza un legame con la precedente – dalla fede nel progresso nella versione che Hegel le aveva dato. Il collegamento con la teoria dell’evoluzione significa che la storia è vista in modo biologistico, anzi, materialistico e deterministico: essa ha le sue leggi e il suo corso, contro il quale si può lottare, ma che alla fine non può essere arrestato. L’evoluzione è subentrata al posto di Dio. «Dio» significa ora: sviluppo, progresso. Ma questo progresso – qui entra Hegel – si realizza in movimenti dialettici; anch’esso ultimamente è compreso in forma deterministica. L’ultima tappa dialettica è il salto dalla storia dell’oppressione nella definitiva storia della salvezza – il passaggio dalle belve al figlio dell’uomo, si potrebbe dire con Daniele. Il regno del Figlio dell’uomo si chiama ora «società senza classi». Sebbene da una parte i salti dialettici come eventi naturali avvengano necessariamente, concretamente essi si verificano di fatto attraverso un cammino politico. Il corrispondente politico del salto dialettico è la rivoluzione. Esso è l’opposto della riforma, che si deve respingere, poiché essa in realtà suscita l’impressione che alla belva sia dato un cuore d’uomo e non sia più necessario combatterla. Le riforme distruggono lo slancio rivoluzionario; pertanto si collocano contro la logica interna della storia, sono un’involuzione invece di un’evoluzione, quindi alla fine nemiche del progresso. Rivoluzione e utopia – la nostalgia di un mondo perfetto – sono collegate: sono la forma concreta di questo nuovo messianismo, politico e secolarizzato. L’idolo del futuro divora il presente; l’idolo della rivoluzione è l’avversario dell’agire politico razionale in vista di un concreto miglioramento del mondo. La visione teologica di Daniele, dell’apocalittica in genere, è applicata alla realtà secolare, ma allo stesso tempo mitizzata. Infatti entrambe le due idee politiche portanti – rivoluzione e utopia – sono, nel loro legame con l’evoluzione e la dialettica, un mito assolutamente antirazionale: la smitizzazione è urgentemente necessaria, perché la politica possa svolgere la sua opera in modo veramente razionale.
Dove si colloca ora però, prescindendo da Daniele e dal messianismo politico, la fede cristiana? Qual è la sua visione della storia e per quanto riguarda il nostro agire storico? Prima che io possa tentare di formulare un giudizio complessivo, dobbiamo dare uno sguardo ai più importanti testi del Nuovo Testamento. Qui si possono, senza grandi analisi, distinguere facilmente due gruppi di testi: da una parte vi sono i testi dei Vangeli e degli Atti degli apostoli, che al massimo da lontano lasciano intravedere legami con l’apocalittica; dall’altra parte vi è l’Apocalisse di Giovanni, che – come già dice il nome – appartiene alla corrente dell’apocalittica. È noto che i testi delle lettere degli apostoli – in consonanza con la visione tratteggiata nei Vangeli – non sono affatto toccate dal pathos della rivoluzione, anzi, vi si oppongono chiaramente. I due testi fondamentali di Rom 13,1-6 e di 1 Petr 2,13-17 sono molto chiari e da sempre una spina nell’occhio per tutti i rivoluzionari. Romani 13 chiede che «ciascuno» (letteralmente: ogni anima) stia sottomesso alle autorità costituite, perché non c’è alcuna autorità se non da Dio. Un’opposizione all’autorità sarebbe pertanto un’opposizione contro l’ordine stabilito da Dio. Ci si deve sottomettere quindi non solo per costrizione, ma per ragioni di coscienza. In modo del tutto analogo la prima Lettera di Pietro richiede sottomissione alle autorità legittime «per amore del Signore»: «Perché questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti. Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia…». Né Paolo né Pietro esprimono qui un’esaltazione acritica dello Stato romano. Sebbene essi affermino l’origine divina degli ordinamenti giuridici statali, sono ben lontani da una divinizzazione dello Stato. Proprio perché essi vedono i limiti dello Stato, che non è Dio e non si può presentare come Dio, riconoscono la funzione dei suoi ordinamenti e il suo valore morale. Si collocano così in una buona tradizione biblica – pensiamo a Geremia, che esorta gli israeliti esiliati alla lealtà nei confronti dello Stato oppressore di Babilonia, nella misura in cui questo Stato garantisce il diritto e la pace e così anche il relativo benessere di Israele, che è la condizione della sua restaurazione come popolo. Pensiamo al Deutero-Isaia, che non ha paura di designare Ciro come l’unto di Dio: il re dei persiani, che non conosce il Dio d’Israele e fa ritornare il popolo in patria per considerazioni puramente pragmatico-politiche, agisce nondimeno, dal momento che si impegna per il ristabilimento del diritto, come strumento di Dio. In questa linea si muove la risposta di Gesù ai farisei e agli erodiani in merito alla questione delle tasse: ciò che è di Cesare, deve essere dato a Cesare (Mc 13,12-17). Nella misura in cui l’imperatore romano è garante del diritto, egli può esigere obbedienza; naturalmente l’ambito del dovere di obbedienza viene allo stesso tempo ridotto: esiste ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio. Laddove Cesare si innalza a Dio, ha superato i suoi limiti e l’obbedienza sarebbe allora rinnegamento di Dio. Sostanzialmente è in questa linea anche la risposta di Gesù a Pilato, nella quale il Signore proprio di fronte al giudice ingiusto riconosce tuttavia che il potere per l’esercizio del ruolo di giudice, del servizio al diritto, può essere dato solo dall’alto (Gv 19,11).
Se si considerano queste correlazioni, appare una concezione dello Stato molto sobria: non è determinante la credibilità personale o le buone intenzioni soggettive degli organi dello Stato. Nella misura in cui garantiscono la pace e il diritto, corrispondono a una disposizione divina; con una terminologia di oggi diremmo: rappresentano un ordinamento creaturale. Lo Stato è da rispettare proprio nella sua profanità; è necessario a partire dall’essenza dell’uomo come animal sociale et politicum, si fonda su questa natura umana e così è corrispondente alla creazione. In tutto questo è allo stesso tempo contenuta una delimitazione dello Stato: esso ha il suo ambito, che non può superare; deve rispettare il più alto diritto di Dio. Il rifiuto dell’adorazione dell’imperatore e in genere il rifiuto del culto dello Stato è in fondo semplicemente il rifiuto dello Stato totalitario. Nella prima lettera di Pietro si manifesta molto chiaramente questa linea di demarcazione, quando l’apostolo dice: «Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida o ladro o malfattore o delatore. Ma se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; glorifichi anzi Dio per questo nome» (4,15s). Il cristiano è vincolato all’ordine giuridico dello Stato come a un ordinamento morale. Qualcosa di diverso è quando egli soffre «come cristiano»: laddove lo Stato punisce l’essere cristiano come tale, non esercita il potere come garante, ma come distruttore del diritto. Allora non è vergogna, ma un onore, essere puniti. Chi soffre per questo motivo, si pone proprio nella sofferenza nella sequela di Cristo: il Cristo crocifisso indica i limiti del potere statale e mostra ove hanno fine i suoi diritti e la resistenza nella sofferenza diventa una necessità. La fede del Nuovo Testamento non conosce il rivoluzionario, ma il martire: il martire riconosce l’autorità dello Stato, conosce però anche i suoi limiti. La sua resistenza consiste nel fatto che egli fa tutto ciò che è al servizio del diritto e della comunità organizzata, anche se proviene da autorità estranee o ostili alla fede, ma egli non obbedisce laddove gli viene ordinato di fare il male, cioè di mettersi contro la volontà di Dio. La sua resistenza non è la resistenza della violenza attiva, ma la resistenza di colui che è pronto a soffrire per la volontà di Dio: il combattente della resistenza, che muore con l’arma in mano, non è un martire nel senso del Nuovo Testamento.
La medesima linea si rivela anche se guardiamo ad altri testi del Nuovo Testamento, che prendono posizione nei confronti del problema dell’atteggiamento cristiano davanti allo Stato. Tito 3,1 dice: «Ricorda loro di essere sottomessi ai magistrati e alle autorità, di obbedire, di essere pronti per ogni opera buona…». Molto indicativo è 2 Tess 3,10-12, laddove l’apostolo si rivolge contro coloro che – certamente con il pretesto dell’attesa cristiana del ritorno del Signore – non lavorano e non vogliono fare niente di utile. Essi vengono invece esortati a lavorare pacificamente, perché «chi non lavora, non mangia». L’escatologia entusiasta viene fortemente richiamata a ridimensionarsi. Un aspetto importante appare anche in 1 Tim 2,2, dove i cristiani vengono esortati a pregare per il re e per tutte le autorità, «perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla». Due cose appaiono qui chiaramente: i cristiani pregano per il re e per le autorità, ma non adorano il re. Il testo data o dal tempo di Nerone – se ne è autore Paolo – o, se è da collocare più tardi, all’incirca dal tempo di Domiziano, quindi due tiranni ostili ai cristiani. Nondimeno i cristiani pregano per colui che governa, perché egli possa adempiere il suo compito. Naturalmente qualora egli si faccia Dio, gli rifiutano obbedienza. Il secondo elemento consiste nel fatto che viene formulato il compito dello Stato in una forma straordinariamente sobria, che sembra quasi banale: deve preoccuparsi della pace interna ed esterna. Ciò può, come detto, suonare piuttosto banale, ma in realtà vi è espressa una istanza essenzialmente morale: la pace interna ed esterna sono possibili solo quando sono assicurati i diritti essenziali dell’uomo e della comunità.
Cerchiamo ora brevemente di inserire queste indicazioni nelle prospettive che abbiamo incontrato in precedenza. A me sembra che si potrebbero dire due cose. La visione storica dinamicizzata dell’apocalittica e delle speranze messianiche fa la sua apparizione solo indirettamente; il messianismo è essenzialmente modificato dalla figura di Gesù. Esso rimane politicamente rilevante, in quanto indica il punto in cui il martirio diventa necessario e così viene precisato il limite dei diritti dello Stato. Ogni martirio tuttavia sta sotto la promessa del Cristo risorto e che ritornerà; in questo senso rinvia al di là del mondo presente a una nuova, definitiva comunione degli uomini con Dio e fra di loro. Ma questa delimitazione dell’ambito dello Stato e questa apertura dell’orizzonte a un futuro mondo nuovo non dissolve gli attuali ordinamenti statali che sulla base della ragione naturale e della sua logica devono continuare a governare e sono ordinamenti validi per il tempo della storia. Un messianismo entusiasta escatologico-rivoluzionario è assolutamente estraneo al Nuovo Testamento. La storia è per così dire il regno della ragione; la politica non instaura il Regno di Dio, ma certamente deve preoccuparsi per il giusto regno dell’uomo, ciò vuol dire: creare i presupposti per una pace interna ed esterna e per una giustizia, nella quale tutti «possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità» (1 Tim 2,2). Si potrebbe dire che qui è espresso anche il postulato della libertà di religione, come viceversa si ritiene la ragione capace di conoscere i fondamenti morali essenziali dell’essere umano e di realizzarli politicamente. In questo senso vi è una vicinanza con le posizioni che il Tao o il Dharma propongono a fondamento dello Stato. Per questo i cristiani potevano guardare positivamente all’idea stoica della legge morale naturale, che proponeva analoghe concezioni nel contesto della filosofia greca. La dinamicizzazione della storia, particolarmente visibile nel libro di Daniele, che non considera la storia semplicemente in modo cosmico, ma la interpreta come dinamica di bene e male in movimento progressivo, rimane presente attraverso la speranza messianica. Essa evidenzia i criteri morali della politica e indica i limiti del potere politico; grazie all’orizzonte della speranza, che lascia intravedere al di là della storia e in essa dà il coraggio per il retto agire e per il retto soffrire. In questo senso si può parlare di una sintesi della visione cosmica e storica. Io credo che a partire di qui si può perfino definire esattamente dove corre il confine fra l’apocalittica cristiana e quella non cristiana, gnostica. L’apocalittica è cristiana allorquando mantiene il legame con la fede nella creazione; laddove la fede nella creazione, la sua permanenza e la sua fiducia nella ragione vengono abbandonate, là si compie il trapasso dalla fede cristiana alla gnosi. All’interno di queste opzioni di fondo vi è senza dubbio una grande possibilità di variazioni, ma certamente una opzione di fondo comune. Un’analisi dei testi, che qui non è possibile, potrebbe mostrare che l’Apocalisse di Giovanni, per quanto il suo pathos di resistenza la distingua dagli scritti apostolici, resta molto chiaramente all’interno dell’opzione cristiana.


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Cosa ne consegue da tutto questo per il rapporto fra visione politica e prassi politica oggi? Sull’argomento ci sarebbe senza dubbio da fare una discussione molto ampia, per la quale io non mi sento competente. Ma in due tesi vorrei brevemente raccogliere indicazioni per la traduzione di questi elementi nell’oggi.
1. La politica è l’ambito della ragione, e più precisamente non di una ragione semplicemente tecnica-calcolatrice, ma morale, poiché il fine dello Stato e così il fine ultimo di ogni politica è di natura morale, cioè la pace e la giustizia. Ciò significa che la ragione morale o – forse meglio – il discernimento razionale di ciò che serve alla giustizia e alla pace, e quindi è morale, deve essere continuamente esercitato e difeso contro oscuramenti che diminuiscono la capacità di discernimento della ragione. Lo spirito di parte, che si accompagna al potere, produrrà continuamente miti in diverse forme che si presentano come la vera via della realtà morale nella politica, ma in verità sono mascheramenti e rivestimenti del potere. Nel secolo scorso abbiamo sperimentato due grandi elaborazioni mitiche con conseguenze terribili: il razzismo con la sua falsa promessa di salvezza da parte del nazionalsocialismo; la divinizzazione della rivoluzione sullo sfondo dell’evoluzionismo storico dialettico; in entrambi i casi furono di fatto cancellate le intuizioni morali originarie dell’uomo sul bene e sul male. Tutto ciò che serve il dominio della razza, ovvero tutto ciò che serve l’instaurazione del mondo futuro, è bene – così ci veniva detto -, anche se ciò, secondo le conoscenze dell’umanità finora acquisite, fosse stato un male.
Dopo la caduta delle grandi ideologie oggi i miti politici sono presentati in modo meno chiaro, ma esistono anche oggi forme di mitizzazione di valori reali che appaiono credibili, proprio per il fatto che si ancorano ad autentici valori, ma appunto anche per questo sono pericolosi, per il fatto che unilateralizzano questi valori in un modo che si può definire mitico. Direi che oggi tre valori sono dominanti nella coscienza comune, la cui unilateralizzazione mitica rappresenta allo stesso tempo un pericolo per la ragione morale di oggi. Questi tre valori continuamente miticamente unilateralizzati sono il progresso, la scienza, la libertà. Il progresso è da sempre una parola mitica, che si impone come norma dell’agire politico e umano in generale e appare come la sua più alta qualificazione morale. Chi guarda anche solo al cammino degli ultimi cento anni, non può negare che sono stati raggiunti progressi enormi nella medicina, nella tecnica, nella conoscenza e nello sfruttamento delle forze della natura e progressi ulteriori possono essere sperati. Nondimeno permane di attualità anche l’ambivalenza di questo progresso: il progresso comincia a minacciare la creazione – la base della nostra esistenza; esso produce disuguaglianze fra gli uomini e produce anche sempre nuove minacce al mondo e all’umanità. In questo senso orientare il progresso secondo criteri morali è indispensabile. Secondo quali criteri? Questo è il problema. Innanzitutto però deve essere chiaro che il progresso si estende al rapporto dell’uomo con il mondo materiale ma non dà luogo in quanto tale – come il marxismo e il liberalismo avevano insegnato – all’uomo nuovo, alla nuova società. L’uomo come uomo resta uguale nelle situazioni primitive come in quelle tecnicamente sviluppate e non cresce di livello semplicemente per il fatto che ha imparato ad adoperare strumenti meglio sviluppati. L’essere uomo ricomincia da capo in ogni essere umano. Perciò non può esistere la definitivamente nuova, progredita e sana società, nella quale non solo hanno sperato le grandi ideologie, ma che diviene sempre più – dopo che la speranza nell’aldilà è stata demolita – l’obiettivo generale da tutti sperato. Una società definitivamente sana presupporrebbe la fine della libertà. Poiché però l’uomo rimane sempre libero, ricomincia a ogni generazione, pertanto si deve anche di nuovo operare per la forma giusta di società nelle sempre nuove condizioni. L’ambito della politica pertanto è il presente e non il futuro – il futuro solo nella misura in cui la politica odierna cerca di creare forme di diritto e di pace che possano valere anche domani e invitare a corrispondenti riforme, che riprendano e continuino ciò che si è raggiunto. Ma non possiamo garantirlo. Io penso che è molto importante tenere presenti questi limiti del progresso ed evitare false scappatoie nel futuro.
Al secondo posto vorrei menzionare il concetto di scienza. La scienza è un grande bene, proprio perché è una forma di razionalità controllata e confermata dall’esperienza. Ma vi sono anche patologie della scienza, stravolgimenti delle sue possibilità in favore del potere, in cui allo stesso tempo viene intaccata la dignità dell’uomo. La scienza può anche servire alla disumanità, se pensiamo alle armi di distruzione di massa o agli esperimenti umani o al commercio di persone per l’esplantazione di organi ecc. Pertanto deve essere chiaro che anche la scienza deve sottostare a criteri morali e la sua vera natura va sempre perduta allorquando invece che della dignità dell’uomo si mette al servizio del potere o del commercio o semplicemente del successo come unico criterio. Infine vi è il concetto di libertà. Anch’esso nell’epoca moderna ha assunto diversi tratti mitici. La libertà non di rado viene concepita in modo anarchico e semplicemente antistituzionale e così diviene un idolo: la libertà umana può essere sempre solo la libertà del giusto rapportarsi reciproco, la libertà nella giustizia, altrimenti diventa menzogna e conduce alla schiavitù.

2. Il fine di ogni sempre necessaria smitizzazione è la restituzione della ragione a se stessa. Qui però deve ancora una volta essere smascherato un mito che solo ci mette davanti all’ultima decisiva questione di una politica ragionevole: la decisione a maggioranza è in molti casi, forse nella maggioranza dei casi, la via «più ragionevole» per giungere a soluzioni comuni. Ma la maggioranza non può essere il principio ultimo; ci sono valori che nessuna maggioranza ha il diritto di abrogare. L’uccisione degli innocenti non può mai divenire un diritto e non può essere elevato a diritto da alcun potere. Anche qui si tratta ultimamente della difesa della ragione: la ragione, la ragione morale, è superiore alla maggioranza. Ma come possono essere conosciuti questi valori ultimi, che costituiscono i fondamenti di ogni politica «ragionevole», moralmente giusta e pertanto vincolano tutti al di là di ogni cambiamento delle maggioranze? Quali sono questi valori? La dottrina dello Stato sia nell’antichità e nel Medioevo come anche nei contrasti dell’epoca moderna ha fatto appello al diritto naturale che la recta ratio può riconoscere. Ma oggi questa recta ratio sembra non dare più una risposta e il diritto naturale non viene più considerato come ciò che è evidente per tutti, ma piuttosto come una dottrina cattolica particolare. Questo significa una crisi della ragione politica, il che equivale a una crisi della politica come tale. Sembra che ormai esista solo la ragione partitica, non più la ragione comune a tutti gli uomini almeno nei grandi ordinamenti fondamentali dei valori. Lavorare al superamento di questa situazione è un compito urgente di tutti coloro che hanno nel mondo responsabilità per la pace e la giustizia – e questo in definitiva lo siamo di fatto noi tutti. Questo impegno non è affatto senza prospettive, non lo è proprio per il fatto che la ragione si fa continuamente sentire contro il potere e lo spirito di parte. Esiste oggi un canone dei valori mutato, che praticamente non è messo in discussione, ma in realtà resta troppo indeterminato e mostra zone oscure. La triade pace, giustizia, integrità della creazione è universalmente riconosciuta, ma dal punto di vista del contenuto totalmente indeterminata: che cosa è al servizio della pace? che cosa è la giustizia? come si protegge nel modo migliore la creazione? Altri valori universalmente praticamente riconosciuti sono l’uguaglianza degli uomini in opposizione al razzismo, la pari dignità dei sessi, la libertà di pensiero e di fede. Anche qui vi sono mancanze di chiarezza dal punto di vista dei contenuti, che possono perfino diventare di nuovo minacce per la libertà del pensiero e della fede, ma gli orientamenti di fondo sono da approvare e sono importanti. Un punto essenziale resta controverso: il diritto alla vita per ciascuno, che sia un essere umano, l’inviolabilità della vita umana in tutte le sue fasi. In nome della libertà e in nome della scienza vengono inferte ferite sempre più gravi nei confronti di questo diritto: laddove l’aborto è considerato un diritto di libertà, la libertà di uno è posta al di sopra del diritto alla vita dell’altro. Laddove esperimenti umani con embrioni vengono reclamati in nome della scienza, la dignità dell’uomo viene negata e calpestata nell’essere più indifeso. Qui si deve dare spazio alle smitizzazioni dei concetti di libertà e di scienza, se non vogliamo perdere i fondamenti di ogni diritto, il rispetto per l’uomo e per la sua dignità. Un secondo punto oscuro consiste nella libertà di deridere ciò che è sacro per altri. Grazie a Dio presso di noi nessuno si può permettere di deridere ciò che è sacro per un ebreo o per un musulmano. Ma si annovera fra i diritti di libertà fondamentali il diritto di dileggiare e di coprire di ridicolo ciò che è sacro per i cristiani. E infine vi è un ulteriore punto oscuro: matrimonio e famiglia sembrano non essere più valori fondamentali di una società moderna. È richiesto con urgenza un completamento della tavola dei valori e una smitizzazione di valori miticamente alterati.
Nel mio dibattito con il filosofo Paolo Flores d’Arcais si toccò proprio questo punto – i limiti del principio del consenso. Il filosofo non poteva negare che esistono valori, i quali non possono essere messi in discussione anche da maggioranze. Ma quali? Davanti a questo problema il moderatore del dibattito, Gad Lerner, ha posto la domanda: perché non prendere come criterio il Decalogo? E in realtà il Decalogo non è una proprietà privata dei cristiani o degli ebrei. È un’altissima espressione di ragione morale che come tale si incontra largamente anche con la sapienza delle altre grandi culture. Riferirsi nuovamente al Decalogo potrebbe essere essenziale proprio per il risanamento della ragione, per un nuovo rilancio della recta ratio. Qui emerge ora anche con chiarezza ciò che la fede può fare per una buona politica: essa non sostituisce la ragione, ma può contribuire all’evidenza dei valori essenziali. Attraverso la concretezza della vita nella fede conferisce a essi una credibilità, che poi illumina e risana anche la ragione. Nel secolo trascorso – come in tutti i secoli – proprio la testimonianza dei martiri ha posto dei limiti agli eccessi del potere e ha così contribuito in modo decisivo al risanamento della ragione.